Le patologie

Questa sezione è dedicata alle informazioni sulle principali patologie ematologiche. qui potrete trovare informazioni sulla leucemia e sulle diverse forme in cui può presentarsi, sulle sindromi mieloproliferative croniche e le mielodisplasie. in questa sezione sono affrontati i problemi connessi ai linfomi, al mieloma e alle aplasie midollari. anche se si tratta di malattie non neoplastiche descriveremo l’emostasi, le sindromi talassemiche, le anemie e l’emocromatosi.

  1. leucemie
  2. linfomi
  3. mieloma
  4. altre patologie

LEUCEMIE

La leucemia è un tumore del sangue causato dalla proliferazione incontrollata di cellule staminali ematopoietiche, cioè cellule immature che sviluppandosi daranno poi vita a globuli bianchi, globuli rossi e piastrine. Le cellule staminali del sangue si trovano nel midollo osseo.

Le cellule staminali possono seguire due linee di sviluppo: mieloide o linfoide. In uno stato normale, le cellule della linea mieloide daranno origine a globuli bianchi (in particolare “neutrofili” e “monociti”), ai precursori di piastrine e globuli rossi, mentre le cellule della linea linfoide diventeranno un tipo di globuli bianchi detti “linfociti”.

In seguito a mutazioni genetiche e meccanismi complessi non sempre ancor oggi del tutto chiariti, le cellule staminali possono interrompere precocemente il processo di maturazione, non riuscendo a portare alla formazione di cellule del sangue normali. Inoltre, la cellula immatura può acquisire la capacità di replicarsi senza limite e diventare resistente ai meccanismi di morte cellulare programmata. Se tutto ciò avviene, i “cloni” – copie identiche della cellula originale – potranno invadere il midollo e il sangue, e talvolta anche linfonodi, milza e fegato. Così ha origine una leucemia.

La velocità di progressione della malattia è un fattore chiave nell’ulteriore classificazione della malattia. Si differenziano così le forme acute (evoluzione con tempistiche brevi o brevissime, che presentano inoltre un blocco di maturazione delle cellule) dalle forme croniche (evoluzione più lenta, in cui viene comunque mantenuta la capacità di maturare dei precursori del midollo, sebbene essa possa essere anormale).

Il rischio di sviluppare una leucemia è maggiore in presenza di alcune condizioni, quali:

  • esposizione a radiazioni ionizzanti o prodotti chimici tossici;
  • esposizione ad alcuni farmaci chemioterapici;
  • anomalie cromosomiche o altre malattie preesistenti (es: sindrome di Down, anemia di Fanconi, ecc.).

TERAPIE

Dipendono moltissimo dal sottotipo di leucemia.
Nelle leucemie acute esse mirano, in generale, all’eradicazione delle cellule immature anormali, o “blasti”, nel tentativo di evitare che questi prendano il sopravvento sulla popolazione cellulare normale.

Nelle forme croniche il trattamento è meno intensivo, e mirato spesso a controllare la proliferazione cellulare.

La leucemia mieloide acuta (LMA) è una malattia dovuta alla crescita incontrollata di cellule immature a livello del midollo osseo. Queste cellule (blasti) lentamente rimpiazzano il normale tessuto midollare, e da ciò deriva un’anomala produzione delle cellule del sangue (globuli rossi, piastrine e globuli bianchi).
La malattia può originare in maniera rapida e inattesa, senza che in precedenza venissero riscontrate anomalie agli esami del sangue, mentre in altri casi è possibile che la malattia si sviluppi a distanza di qualche anno da trattamenti chemioterapici per altri tumori o che sia il frutto dell’evoluzione da un’altra malattia del sangue, come le sindromi mielodisplastiche o le malattie mieloproliferative.

La LMA è una malattia molto varia, con sottotipi diversi in base alla rapidità dell’evoluzione, alla presentazione e soprattutto al sottotipo genetico. Le attuali classificazioni si basano infatti sempre più sulle anomalie cromosomiche e geniche, che consentono di suddividere la malattia in sottogruppi con caratteristiche, andamento e trattamento differenti. Un sottotipo particolare, la leucemia acuta promielocitica, si differenzia notevolmente dalle altre forme, e verrà poi tratta in un altro capitolo.

INCIDENZA
La LMA ha un’incidenza di circa 3-4 casi per 100.000 persone all’anno, colpendo – in Italia – circa 2000 persone ogni anno. Tuttavia, il rischio di sviluppare la malattia varia con l’età, e la maggioranza dei casi si presenta in età avanzata, specie dopo i 60-65 anni.

Fattori di rischio
In molti casi non si riesce a stabilire una causa chiara della LMA. In qualsiasi caso, l’esposizione a fumo di sigaretta e a certe sostanze chimiche come il benzene è stata associata a un aumentato rischio di malattia.
Come già menzionato, anche aver ricevuto chemioterapia o radioterapia per altri tumori, o avere alcuni tipi di malattie del sangue, aumenta il rischio di sviluppare una LMA.
Negli ultimi anni sono emerse anche delle forme familiari, che rappresentano comunque una percentuale molto bassa dei casi, e che si associano a particolari mutazioni genetiche.

SINTOMI
I sintomi della LMA sono in generale non specifici e talvolta la malattia può essere diagnosticata casualmente dagli esami del sangue.
L’insufficiente produzione di globuli rossi porta a un’anemia, che può manifestarsi con stanchezza, pallore, dispnea. Il calo del numero delle piastrine porta a un rischio aumentato di sanguinamento, a volte anche spontaneo. La riduzione dei globuli bianchi normali porta a un rischio aumentato di febbre e infezioni.
La crescita delle cellule immature può portare a dolori ossei diffusi, malessere, perdita di peso, all’ingrossamento del fegato, della milza, dei linfonodi, delle gengive, o al danneggiamento di altri organi.

DIAGNOSI
La diagnosi di LMA viene di solito sospettata sulla base delle anomalie dell’emocromo (anemia e piastrinopenia gravi, globuli bianchi molto bassi o molto alti, blasti segnalati nel sangue), ma deve essere confermata con indagini più specifiche. Queste richiedono quasi sempre la valutazione del midollo osseo attraverso l’aspirato midollare e spesso la biopsia ossea. Su tali prelievi vengono effettuate l’analisi morfologica, dell’immunofenotipo delle cellule, della citogenetica e della biologia molecolare. In caso di conferma di LMA, quegli esami portano a identificare il sottotipo specifico, che è fondamentale per la scelta della terapia. Inoltre, le caratteristiche genetiche e molecolari della malattia consentono di stratificare i pazienti anche dal punto di vista prognostico.

TERAPIA
La terapia specifica della LMA dipende dall’età, dalle condizioni generali del paziente e dalle caratteristiche specifiche della malattia.
Nei pazienti giovani, e a volte fino a 70-75 anni, il trattamento di base consiste spesso nella chemioterapia intensiva. La prima fase consiste in un trattamento di induzione, mirato all’ottenimento della remissione di malattia, seguita dalla terapia di consolidamento, utile per migliorare la risposta e ridurre il rischio che la malattia possa ritornare. La terapia di mantenimento non viene somministrata ancora routinariamente, anche se nuovi farmaci sono in arrivo in tale contesto. Ad alcune categorie di pazienti, in relazione alle caratteristiche della LMA, alla risposta clinica alle terapie, all’età e alle condizioni generali, viene proposto il trapianto di cellule staminali dopo l’ottenimento della remissione di malattiaIl trapianto può essere autologo, per il quale vengono utilizzate le cellule del paziente stesso, oppure allogenico, per il quale vengono utilizzate le cellule di un donatore.
I pazienti più anziani e/o con altre patologie importanti spesso non sono in grado di sopportare la chemioterapia intensiva. In questi casi, la terapia si basa comunemente su agenti ipometilanti (decitabina o azacitidina), farmaci a ridotta tossicità somministrati da soli o in combinazione con nuovi farmaci.
I miglioramenti terapeutici ottenuti negli ultimi anni sono dovuti anche al perfezionamento delle terapie di supporto, utili per prevenire e curare le complicanze causate dalla malattia e degli stessi trattamenti chemioterapici. La terapia di supporto consiste spesso in trasfusioni di sangue e di piastrine, nell’uso di antibiotici/antifungini e qualche volta di fattori di crescita per favorire la risalita dei globuli bianchi. Nei pazienti anziani molto fragili può a volte essere scelta come unico trattamento, assieme a chemioterapici orali a basse dosi.

Nuovi farmaci
Negli ultimi anni, grazie all’arrivo di nuovi farmaci, la terapia specifica della LMA è molto cambiata.
Diversi farmaci a bersaglio molecolare sono già attualmente disponibili, come gli inibitori di FLT3, proteina mutata frequentemente nelle LMA, che possono essere associati a chemioterapia intensiva in prima linea (midostaurina), oppure utilizzati da soli in pazienti con malattia recidivata (gilteritinib). Inoltre, oggi è disponibile l’associazione di venetoclax – inibitore di BCL2 che agisce favorendo le vie di morte cellulare dei blasti leucemici – con gli agenti ipometilanti. Questa associazione ha dimostrato un miglioramento della risposta alla terapia rispetto all’ipometilante da solo, pur con tossicità superiore. Il venetoclax è poi oggetto di studio in combinazione con la terapia intensiva.
Altri farmaci sono arrivo, come il glasdegib, un inibitore di una via di proliferazione delle cellule leucemiche che viene associato a citarabina a basse dosi in pazienti anziani, e gli inibitori di IDH, altre proteine spesso mutate nelle LMA, che non sono attualmente approvati in Italia.
Nella LMA è poi stato approvato l’anticorpo monoclonale coniugato gemtuzumab ozogamicina, in grado di colpire il CD33, una proteina presente spesso sui blasti della leucemia. Il gemtuzumab è a volte utilizzato in associazione a chemioterapia, specie nelle forme di LMA a prognosi migliore.

In studio sono anche nuove formulazioni di farmaci già noti. Una di queste, l’associazione di daunorubicina e citarabina CPX-351, può essere utilizzata in alcune forme di LMA secondarie. Infine, è in arrivo una nuova formulazione dell’azacitidina disponibile per via orale, che potrà essere utilizzata come terapia di mantenimento.

La leucemia a cellule capellute (hairy cell leukemia [HCL], o tricoleucemia) prende il nome dall’aspetto delle cellule osservate al microscopio ottico. Numerose protuberanze citoplasmatiche, ossia del materiale interno della cellula, si svolgono come sottili filamenti che, nel complesso, ricordano dei capelli.

La malattia è caratterizzata da una proliferazione anomala di cellule linfoidi di tipo B ad andamento cronico, che si associa al calo dei valori del sangue, nello specifico riduzione del numero di neutrofili e del numero piastrine circolanti anche severa, anemi, e ingrossamento della milza (“splenomegalia”). Nel tempo, se non trattata, la HCL tende ad aggravarsi, soprattutto per il rischio di infezioni ricorrenti.

Le cellule linfoidi di tipo B coinvolte presentano una serie di mutazioni che si osservano anche nella leucemia linfatica cronica, ma per la quasi totalità dei casi è stata identificata una mutazione caratteristica ritenuta responsabile della malattia, che coinvolge il gene BRAF. La mutazione che colpisce il gene BRAF è responsabile dell’aumento della proliferazione cellulare.

INCIDENZA
La HCL è una malattia rara, con un’incidenza stimata di meno di 1 caso ogni 100.000 persone. È molto più frequente negli uomini, con un rapporto di 4 o 5:1 rispetto alle donne.

DIAGNOSI
L’età media alla diagnosi è di circa 50 anni e, come in molte altre malattie ematologiche, si arriva all’ematologo a seguito di valori anomali riscontrati nel corso di analisi di routine, in particolare per anemia e/o diminuzione del numero di globuli bianchi (leucopenia).
Altri sintomi che possono essere presenti alla diagnosi sono l’ingrossamento della milza, che può provocare disturbi in tutta la zona addominale a causa della compressione degli organi circostanti, e la comparsa di febbri ricorrenti che non rispondono ai trattamenti con antibiotici. È possibile che vi sia anche una diminuzione del numero di piastrine (piastrinopenia) e che quindi compaiano sintomi di tipo emorragico.
La diagnosi viene sospettata dall’aspetto tipico delle cellule linfocitarie anomale nel sangue, con le tipiche protuberanze del citoplasma e supportato dall’analisi immunofenotipica delle cellule, che presentano un profilo caratteristico. La diagnosi viene poi confermata dalla biopsia osteomidollare, che mostra un diffuso infiltrato delle cellule di HCL.

PROGNOSI E FATTORI PROGNOSTICI
La prognosi della malattia è stata rivoluzionata negli ultimi vent’anni del secolo scorso con l’avvento degli attuali farmaci, che risultano essere particolarmente efficaci tenere l’HCL sotto controllo per periodi molto prolungati.

TERAPIA
Gran parte dei pazienti ha necessità di un trattamento fin dalla diagnosi. La terapia di prima linea consiste in un ciclo di chemioterapia, con farmaci come la cladribinia o la pentostatina.
L’anticorpo monoclonale anti-CD20 rituximab si è dimostrato efficace, ed è spesso utilizzato – da solo o con chemioterapia – nei pazienti che ricadono.
Nei pazienti che presentano infezioni gravi, a volte viene scelto inizialmente l’interferone, perché associato un rischio minore di tossicità ematologica rispetto alla chemioterapia.

PARTICOLARITÀ
Esiste una variante della malattia definita HCL variante. Tale forma di malattia, pur somigliando alla HCL classica, non presenta la mutazione BRAF ed è meno responsiva ai farmaci solitamente utilizzati nella forma classica.

RICERCHE FUTURE
Sono in corso ricerche che utilizzano nuovi anticorpi monoclonali e soprattutto inibitori di BRAF, il gene responsabile della malattia. Recentemente sono emersi dati incoraggianti con uno di tali inibitori, il vemurafenib, usato da solo o in combinazione con rituximab; in Italia non è però ancora approvato

  • Laleucemia linfoide (o linfoblasticaacuta (LLA) è – analogamente alla LMA – una malattia causata dalla crescita incontrollata di cellule immature (“blasti”) a livello del midollo osseo, con conseguente alterata produzione delle cellule del sangue (globuli rossi, piastrine e globuli bianchi). Nella LLA, i blasti derivano però da precursori dei linfociti, cellule specializzate della produzione di anticorpi e nel proteggere da determinati tipi di infezioni, che in seguito a complessi meccanismi genetici non riescono a maturare e cominciano a proliferare in modo incontrollato.
    Oltre ad invadere il midollo osseo e il sangue, nella LLA i blasti sono in grado di raggiungere e infiltrarsi in altri organi e tessuti (linfonodi, milza, fegato, sistema nervoso centrale), più spesso che in altri tipi di leucemia acuta.
    Talvolta la malattia può presentarsi con coinvolgimento di linfonodi (timo) o altri organi senza o con minima infiltrazione del midollo osseo. In questi casi si parla di linfoma linfoblastico, che viene oggi trattato con gli stessi protocolli di trattamento della LLA.
    La LLA è una malattia varia, con sottotipi diversi in base alla presentazione e soprattutto al sottotipo genetico. Le attuali classificazioni si basano infatti sempre più sulle anomalie cromosomiche e geniche, che consentono di suddividere la malattia in sottogruppi con caratteristiche e risposta al trattamento differenti. Un sottotipo particolare, la LLA Philadelphia+, si differenzia dalle altre forme, ed è trattata a sé (veda qui >> link alla pagina della LLA Ph+).Fattori di rischio
    La LLA si sviluppa per cause non ancora del tutto definite. Come in altre forme di leucemia, l’esposizione a tossici, come il benzene, o precedenti trattamenti chemioterapici, aumentano il rischio di malattia. In casi rari, sono state individuate mutazioni presenti dalla nascita che predispongono allo sviluppo della malattia.INCIDENZA
    La LLA è una malattia peculiare dell’età pediatrica e rappresenta il tumore ematologico più frequente nei bambini, con una stima di 3-4 casi ogni 100.000 persone al di sotto dei 18 anni di età. L’incidenza presenta un picco entro i 10 anni di età, per calare nell’età adulta e aumentare un poco di nuovo al di sopra dei 50 anni, rimanendo comunque una malattia rara nell’età adulta.SINTOMI
    La malattia può manifestarsi in modo acuto oppure in maniera subdola, con sintomi che possono perdurare anche molte settimane.
    Sintomi tipici sono quelli dovuti al calo di globuli rossi bianchi e piastrine: i pazienti possono quindi presentare infezioni, sanguinamenti, stanchezza intensa, pallore.
    La crescita dei blasti può portare anche a dolori ossei diffusi, malessere, perdita di peso, all’ingrossamento del fegato, della milza e dei linfonodi, delle gengive. Talvolta possono essere presenti anche sintomi neurologici (come alterazioni della vista, della sensibilità, del movimento) per coinvolgimento da parte della malattia del sistema nervoso centrale.Diagnosi
    La diagnosi della LLA richiede una serie di analisi per caratterizzare completamente la malattia e inquadrarla dal punto di vista clinico-biologico. Tale caratterizzazione è fondamentale per la scelta della strategia terapeutica da adottare e viene effettuata a seguito di: analisi morfologica, immunofenotipica, citogenetica e di biologia molecolare.
    L’analisi morfologica delle cellule, cioè l’osservazione al microscopio dello striscio di sangue (periferico e/o midollare), è il primo passo per arrivare alla diagnosi. La presenza di numerosi blasti suggerisce la diagnosi di leucemia acuta, e può essere posto il sospetto di LLA sulla base del loro aspetto, che tuttavia richiede ulteriori approfondimenti
    L’analisi immunofenotipica consente di confermare la diagnosi di LLA, e di definire il sottotipo. La maggioranza delle LLA origina infatti da precursori dei linfociti di tipo B, mentre più rare sono quelle di origine T. La differenziazione tra forme B e T è essenziale, in quanto cominciano a essere disponibili trattamenti differenziati in base al sottotipo. È anche possibile che le cellule presentino marker misti di linea B e/o T e marker in comune con le LMA; in tali casi si parla di leucemie bifenotipiche o a fenotipo misto. Si tratta però di forme estremamente rare.
    La citogenetica è essenziale per differenziare sottotipi con andamento, prognosi e possibilità terapeutiche differenti. Fra queste, la più rilevante l’identificazione della traslocazione tra il cromosoma 9 e il 22, che porta alla formazione del cosiddetto cromosoma Philadelphia (si veda la LLA Ph+).
    L’utilizzo della biologia molecolare è di fondamentale importanza per caratterizzare il sottotipo della LLA e affianca le analisi citogenetiche. È inoltre fondamentale per individuare un marcatore utile per monitorare la risposta della malattia al trattamento, attraverso il monitoraggio della malattia minima residua (MMR). FATTORI PROGNOSTICI
    L’identificazione del profilo di rischio del paziente è importante per definire il trattamento migliore e, nei pazienti giovani, l’indicazione al trapianto di cellule staminali. Il rischio viene calcolato sulla base di valori come l’età, il numero di globuli bianchi, la presenza di alcune mutazioni citogenetico/molecolari, il coinvolgimento di altri organi, il tempo necessario per raggiungere la remissione completa (RC) della malattia e soprattutto il monitoraggio della malattia minima residua. Quest’ultima è infatti considerata fondamentale per valutare l’efficacia della terapia e il rischio di ricaduta.TERAPIA
    Il trattamento di base nella LLA (se negativa per il cromosoma Philadelphia) consiste di solito in un programma di polichemioterapica intensiva. La prima fase consiste in un trattamento di induzione, mirato all’ottenimento della remissione di malattia, seguita dalla terapia di consolidamento, utile per migliorare la risposta e ridurre il rischio che la malattia possa ritornare. Il programma di trattamento prevede l’alternanza di numerosi farmaci diversi, fra i quali è frequentemente presente l’asparaginasi, molto efficace ma con possibili tossicità particolari, come le alterazioni della coagulazione, che richiedono un attento monitoraggio.
    Terminata la parte intensiva del trattamento, inizia la terapia di mantenimento, che è fondamentale per ridurre il rischio di recidiva. Essa consiste nella somministrazione prolungata di più farmaci a basse dosi, e la durata è di solito attorno ai 2 anni.
    Per prevenire il rischio di recidiva della malattia a livello del sistema nervoso centrale, vengono poi somministrati periodicamente farmaci chemioterapici attraverso punture lombari medicate, che consentono così di trattare una parte del corpo difficilmente raggiungibile dai farmaci chemioterapici per via endovenosa od orale.
    Su questo schema di base si adottano diverse strategie terapeutiche che sono perlopiù dettate dall’età del paziente e dal profilo molecolare della malattia.
    Nei casi a rischio più alto, in particolare quando la MMR rimane positiva, viene valutato anche il trapianto di cellule staminali, più frequentemente
    I pazienti anziani non tollerano gli schemi intensivi di utilizzo pediatrico: vengono pertanto utilizzati protocolli meno aggressivi, con dosaggi ridotti dei chemioterapici.Nuovi trattamenti
    Negli ultimi anni sono emerse numerose terapie che hanno permesso di migliorare i risultati del trattamento dei pazienti con LLA.
    Miglioramenti sono stati attribuiti all’utilizzo di schemi di ispirazione pediatrica anche nei pazienti adulti e all’evoluzione di farmaci già normalmente in uso che, grazie a nuove formulazioni, aumentano l’efficacia. Fra questi, la formulazione peghilata dell’asparaginasi, che grazie a una modifica della sua struttura biochimica consente un’esposizione maggiormente prolungata al trattamento.
    Sono poi stati introdotti anticorpi monoclonali di tipo diverso. Il rituximab, anticorpo monoclonale anti-CD20, è utilizzabile in prima linea nelle forme di LLA B CD20 positive in associazione alla chemioterapia. Il blinatumumab, anticorpo monoclonale bi-specifico, in grado di dirigere i linfociti T del paziente contro i blasti della malattia, è impiegato nei casi con LLA B recidivata oppure con positività della MMR. L’anticorpo monoclonale coniugato anti-CD22 inotuzumab, in grado di portare una molecola di chemioterapia direttamente a livello delle cellule di malattia, è disponibile per i pazienti con LLA B recidivata, se positiva a CD22.
    Le cellule CAR-T, linfociti modificati in grado di colpire specificatamente i blasti della malattia, sono stati studiati nei casi di malattia recidivata, e attualmente sono approvati nei pazienti con LLA B fino a 25 anni di età con fallimento delle precedenti terapie.
    Per le forme di LLA di linea T in recidiva si è dimostrato efficace il farmaco chemioterapico nelarabina. Anticorpi monoclonali e farmaci a bersaglio molecolare sono in studio, ma non sono attualmente approvati.
  • Leanemie sideroblastiche comprendono un gruppo eterogeneo di malattie, distinguibili in forme congenite (o ereditarie) e acquisite, caratterizzate da un difetto di sintesi del gruppo eme (l’eme costituisce il gruppo prostetico, cioè la parte non proteica, di una serie di proteine, fra cui l’emoglobina, la mioglobina e i citocromi). Per entrambe le forme, sono stati identificati diversi difetti enzimatici di sintesi dell’eme.
    L’anemia sideroblastica congenita è una malattia molto rara.
    Le forme acquisite invece possono essere distinte in primitive o secondarie, successive all’esposizione ad agenti tossici o ad alcuni farmaci.
    L’anemia sideroblastica acquisita primitiva viene classificata tra le sindromi mielodisplastiche.DIAGNOSI
    Le manifestazioni cliniche dell’anemia sono di varia gravità e appaiono nei primi mesi o anni di vita. Si rilevano delle cellule caratteristiche, i sideroblasti, precursori dei globuli rossi che presentano un accumulo di ferro di tipo non emoglobinico. All’accumulo di ferro è, appunto, legata l’evoluzione clinica della malattia.TERAPIA
    La terapia varia con la gravità della malattia. Nelle prime fasi, come primo approccio, può anche essere sufficiente la somministrazione di vitamina B6. In seguito, si valuta anche la somministrazione di trasfusioni, sempre in associazione a terapie ferrochelanti per controllare l’accumulo di ferro.
  • La leucemia acuta linfoblastica Philadelphia positiva (LLA Ph+), è una varietà di LLA di linea B, caratterizzata dalla presenza della traslocazione fra i cromosomi 9 e 22, che costituiscono così il cosiddetto cromosoma Philadelphia, nome che deriva dalla città in cui lavoravano gli scienziati che per primi lo indentificarono.
    La traslocazione porta alla formazione della proteina di fusione BCR-ABL, in grado di attivare numerose vie cellulari che portano alla proliferazione incontrollata dei “blasti” (cellule immature anormali) della malattia.
    Un tempo una delle forme più letali di leucemia, la storia della LLA Ph+è stata rivoluzionata dall’avvento degli inibitori tirosin-chinasici specifici, in grado di bloccare in maniera selettiva la proteina alterata.INCIDENZA
    La LLA Ph+ rappresenta circa il 30% delle LLA dell’adulto, e si presenta più frequentemente in età avanzata. È molto rara nella popolazione pediatrica.DIAGNOSI
    Non appena viene posta la diagnosi di LLA di linea B, attraverso l’analisi morfologica e l’immunofenotipo, è necessario identificare prontamente se si tratta di una forma Ph+. Per farlo, viene effettuata l’analisi citogenetica, che consente di individuare il cromosoma Philadelphia accanto a eventuali altre alterazioni, e solitamente anche la FISH, metodica più rapida in grado di identificare la traslocazione 9-22. La diagnosi viene poi perfezionata da metodiche di biologia molecolare, in grado di identificare il sottotipo di proteina anomala prodotta in seguito alla traslocazione 9-22.TERAPIA
    La terapia della LLA Ph+ è stata rivoluzionata dall’avvento degli inibitori tirosin-chinasici, il primo dei quali è stato l’imatinib. Questi farmaci sono stati aggiunti alla chemioterapia tradizionale, migliorando enormemente la possibilità di ottenere la remissione della malattia e una sopravvivenza prolungata. L’avvento di inibitori di seconda generazione, come il dasatinib, e di terza, come il ponatinib, ha offerto la possibilità di migliorare ulteriormente le risposte al trattamento, specie nei casi con risposta non soddisfacente a imatinib.
    Vista l’efficacia degli inibitori specifici, negli ultimi anni sono stati poi proposti dal gruppo italiano GIMEMA schemi chemo-free, i quali prevedono l’impiego dell’inibitore tirosin-chinasico e degli steroidi, ma non della chemioterapia sistemica. Tale strategia ha dimostrato ottimi risultati clinici, specie nell’ottenere la remissione completa, e tossicità molto limitate. Anche con questi regimi rimane comunque necessaria la somministrazione di chemioterapia direttamente a livello del sistema nervoso centrale attraverso punture lombari medicate.
    Più recentemente, sempre il gruppo GIMEMA ha testato l’anticorpo monoclonale bi-specifico blinatumumab in associazione al trattamento con steroide e dasatinib, con risultati preliminari molto positivi. Tale associazione non è però ancora approvata in Italia.
    Il trapianto di cellule staminali, solitamente allogenico ma talvolta anche autologo, è stato molto utilizzato nella LLA Ph+ ed è stato considerato a lungo parte fondamentale del trattamento per i pazienti che potessero tolleralo. Con l’avvento di nuove terapie è emerso che per una parte di pazienti, specie quelli che ottengono precocemente la negatività della malattia minima residua, tale procedura potrebbe non essere sempre necessaria.
    Anche per la LLA Ph+ l’avvento di nuovi anticorpi monoclonali e delle CAR-T cells potrebbe rappresentare una possibilità terapeutica importante.
  • L’eosinofiliaè caratterizzata dall’aumento del numero di eosinofili (un tipo di globulo bianco) circolanti nel sangue periferico. Quando il numero di tali cellule supera i 1500 per mm3 il disordine assume una rilevanza clinica per la possibile comparsa di danni d’organo, in particolare a carico di cuore, polmoni e sistema nervoso centrale.
    L’aumento di eosinofili ha molteplici cause e pertanto la malattia può essere distinta clinicamente in varie forme, in relazione alla causa primaria all’origine del disordine.
    Nella gran parte dei casi l’eosinofilia è secondaria: è cioè uno stato determinato da una stimolazione esterna del sistema immunitario – come reazioni allergiche, presenza di alcuni tipi di parassiti, malattie autoimmuni. Più raramente l’eosinofilia può essere legata a reazioni avverse a farmaci, o secondaria a tumori. In queste condizioni, infatti, come risposta alla stimolazione, si ha un rilascio di mediatori del sistema immunitario che poi influiscono sulla popolazione di eosinofili.
    Esistono però anche forme piuttosto rare di tumori del sangue con un incremento caratteristico degli eosinofili. Fra queste forme di leucemie eosinofile il danno genetico più frequente coinvolge in gene del PDGFRA, che determina la formazione di proteina di fusione iperattiva e che porta a un quadro clinico simile a quello della leucemia mieloide cronica. Anche nel caso in cui sia coinvolto il PDGFRB, più raro, il quadro della malattia è cronico e presenta di solito un incremento di globuli bianchi, specie monociti ed eosinofili. Ancora più rare sono le forme con alterazioni di FGFR, che possono però presentare un andamento più rapido e aggressivo.
    Esistono inoltre casi di leucemie eosinofile croniche anche in assenza delle suddette trasformazioni genetiche. In questi casi è definita come leucemia eosinofila non altrimenti specificata.
    Infine, è anche possibile che non si riesca a identificare una causa specifica del disordine, e si parlerà quindi di sindrome ipereosinofila idiopatica, una malattia caratteristica dell’età adulta avanzata che colpisce prevalentemente gli uomini.TERAPIA
    Nelle forme con traslocazione di PDGFRA e PDGFRB la terapia è stata rivoluzionata dall’introduzione degli inibitori tirosin-chinasici, in particolare l’imatinib. Grazie ad essi, nella quasi totalità dei pazienti si ottiene una risposta completa, che gli studi hanno dimostrato persistere nel tempo.
    Per i pazienti con traslocazione di FRGFR le terapie sono finora state molto limitate. Recentemente, sono stati iniziati studi clinici con inibitori specifici di FGFR, con dati incoraggianti ma molto preliminari.
    Per i pazienti senza una traslocazione per cui esistano farmaci specifici, la terapia varia a seconda del sottotipo di patologia, e mira a evitare le complicanze d’organo. Questi trattamenti includono con corticosteroidi, l’interferone e sono in studio anticorpi monoclonali
  • La leucemia acuta promielocitica(LAP) è una varietà di leucemia mieloide acuta (LMA) caratterizzata da manifestazioni cliniche di rilevante gravità, legate alle alterazioni della coagulazione caratteristiche di questa malattia. Tutto ciò si traduce in un rischio elevato di emorragie, anche potenzialmente fatali, e in minor misura di trombosi.
    Le caratteristiche genetiche della LAP sono state inquadrate nel 1977 da Janet Rowley, che identificò il marchio genetico della malattia: la traslocazione t (15;17), un reciproco scambio di materiale genetico tra il cromosoma 15 e il 17.
    Nel 1991 i ricercatori italiani, guidati da Francesco Lo Coco e Giuseppe Pelicci, identificarono i geni RAR alfa e PML coinvolti nella traslocazione caratteristica, presente esclusivamente nella LAP e che la distingue dalle altre forme di LMA.INCIDENZA
    L’età media di insorgenza della LAP è intorno ai 40 anni, generalmente più precoce rispetto alla LMA, e colpisce egualmente entrambi i sessi. Rappresenta circa il 10-15% del totale delle LMA.DIAGNOSI E PRESENTAZIONE DELLA MALATTIA
    La presentazione della malattia è simile a quella delle LMA, ma più spesso sono presenti sanguinamenti spontanei, ad esempio delle gengive, lividi e petecchie (piccole emorragie sulla pelle).
    La diagnosi di LAP viene sospettata in presenza di un calo marcato di piastrine, globuli rossi e globuli bianchi, specialmente di neutrofili, in associazione ad anomalie della coagulazione. Poco meno di un terzo dei casi si presenta coi globuli bianchi elevati, forme che vengono classificate a rischio più elevato.
    L’aspetto delle cellule della malattia è poi caratteristico e di solito altamente indicativo per la diagnosi di LAP.
    Nella quasi totalità dei casi la LAP mostra la tipica traslazione cromosomica già alla convenzionale analisi citogenetica e alla FISH, che servono per confermare il sospetto diagnostico. Nei rari casi in cui la malattia non viene immediatamente evidenziata, l’identificazione è accertata con la biologia molecolare.TERAPIA
    La terapia della LAP è stata completamente rivoluzionata nel corso degli ultimi anni grazie all’attività di ricerca che ha visto tra i principali protagonisti la Fondazione italiana GIMEMA. A oggi è possibile curare la malattia anche senza ricorrere alla chemioterapia, con un trattamento che prevede l’associazione di un derivato della vitamina A, l’acido trans-retinoico (somministrato per via orale), e del triossido di arsenico (per via endovenosa). Tale combinazione è in grado di far differenziare le cellule della malattia e portare in remissione ben oltre il 90% dei pazienti. Dopo l’ottenimento della remissione, vengono effettuati diversi cicli sempre con acido trans-retinocio e triossido di arsenico, in regime ambulatoriale e di day hospital, grazie ai quali il rischio di ricaduta della malattia diviene estremamente ridotto.I pazienti con globuli bianchi elevati a più alto rischio necessitano ancora di chemioterapia intensiva per il controllo di malattia, e il triossido di arsenico non è ancora approvato in Italia per il trattamento di prima linea.
    Nonostante i notevoli progressi nel trattamento, la LAP deve essere considerata un’emergenza medica che, soprattutto a causa del rischio di sanguinamento, deve essere trattata velocemente e con adeguate misure di supporto.PARTICOLARITÀ
    Quella, nella maggior parte dei casi, era sino a pochi anni fa una malattia letale, è oggi diventata una delle forme di leucemia più curabili e guaribili. Grazie alla ricerca scientifica.
  • La mielofibrosi è una neoplasia mieloproliferativa cronicacaratterizzata da fibrosi midollare, che si accompagna molto spesso a ingrossamento della milza (splenomegalia) e anemia.
    La mielofibrosi è caratterizzata da due componenti, una cellulare e una fibrotica. La componente cellulare deriva dalla trasformazione tumorale di una cellula staminale emopoietica che cresce in maniera incontrollata e anomalia e porta all’alterazione dei normali precursori dei globuli rossi globuli bianchi e delle piastrine. La seconda componente è identificata nell’anomala produzione di fibre di collagene all’interno del midollo. La responsabilità della produzione di fibre è però a carico del “clone” (copia identica della cellula originale) tumorale che attiva segnali stimolatori in tal senso.
    La malattia può essere asintomatica nella prima fase, motivo per cui viene spesso diagnosticata nel corso di normali analisi di controllo, o può dare dolori addominali e disturbi della circolazione. Quando la fase fibrotica prende il sopravvento, anche i sintomi clinici aumentano. Possono quindi apparire: febbre, perdita di peso, dolori ossei e sudorazione notturna. Con il decorso della malattia può peggiorare l’anemia, aumentare il numero dei globuli bianchi e/o ridursi quello delle piastrine, e l’ingrossamento della milza può dare concreti sintomi da ingombro, come dolore addominale e pienezza precoce dello stomaco.
    La malattia ha un andamento cronico ma il rischio è superiore rispetto alle altre malattie mieloproliferative croniche.
    Si distinguono infine forme di mielofibrosi primaria e una secondaria, quest’ultima rappresentante l’evoluzione di una policitemia vera o una trombocitemia essenziale.
    La malattia può evolvere in crisi blastica, una condizione clinica molto simile a una leucemia acuta, o entrare in una fase accelerata, pur senza trasformazione in leucemia. Altre possibili complicazioni che incidono sul decorso della malattia sono le trombosi e infezioni.INCIDENZA
    L’incidenza della malattia è bassa (stimata in circa 0,5-1,3 casi ogni 100.000 persone) e rientra nella definizione di malattia rara.DIAGNOSI
    L’età media in cui viene effettuata la diagnosi si aggira sui 60-65 anni. Solo un 10% del totale dei pazienti presenta un’età inferiore ai 55 anni.
    Per la diagnosi è essenziale la biopsia osteomidollare, che consente di valutare lo stato di fibrosi del midollo, la morfologia alterata dei precursori delle cellule del sangue e definire il grado di malattia. È poi importante la ricerca delle mutazioni di JAK2CALR e MPL, in quanto una delle tre è presente nella maggioranza dei pazienti. Sono poi necessari di alcuni criteri clinici, quali l’anemia, l’ingrossamento della milza, i globuli bianchi e la LDH (lattato deidrogenasi) elevata, la presenza di cellule immature nel sangue periferico.PROGNOSI
    Considerata la variabilità delle possibili complicazioni e del rischio di trasformazione, è fondamentale definire il rischio di ciascun paziente, basato sulle caratteristiche cliniche, genetiche e molecolari.
    Fattori di rischio clinici sono l’età, l’anemia, le piastrine basse, i globuli bianchi molto alti, i sintomi sistemici, l’eccesso di cellule immature nel sangue. Sono poi importanti le anomalie citogenetiche aggiuntive e lo stato mutazionale di JAK2CALRMPL), in quanto l’assenza di tutte le mutazioni (triplo negativo) è un fattore che peggiora la prognosi, mentre la presenza di alcune mutazioni di CALR è associata a un andamento più favorevole. Infine, la presenza di mutazioni in altri geni come ASXL1, che vengono ricercate con metodiche di moderne di biologia molecolare, possono fornire ulteriori informazioni prognostiche e potenzialmente terapeutiche.TERAPIA
    La modulazione della terapia deve prendere in esame lo stato di malattia e il rischio calcolato. Il rischio viene stimato tramite diversi score internazionali (fra questi l’IPSS, il DIPSS, e più recentemente score che considerano anche nuove mutazioni riscontrate in biologia molecolare) e distinguono diverse categorie di pazienti.
    Nei pazienti a rischio più basso, la terapia può consistere nel solo monitoraggio, o in farmaci per correggere le anomalie dell’emocromo, come l’idrossiurea in caso di globuli bianchi elevati.
    Nei pazienti a rischio-intermedio-alto è disponibile l’inibitore di JAK1-2 ruxolitinib, che ha dimostrato un’ottima capacità di ridurre l’ingrossamento della milza e di controllare i sintomi sistemici, con un miglioramento della sopravvivenza evidenziato da alcuni studi.
    L’unica terapia potenzialmente guaritiva nella mielofibrosi rimane il trapianto di cellule staminali. Viste le tossicità potenzialmente severe il trattamento è riservato a pazienti relativamente giovani e con rischio di malattia intermedio-alto.RICERCHE FUTURE
    Nuovi inibitori di JAK2 sono in fase avanzata di sperimentazione, e alcuni saranno a breve disponibili per i pazienti che falliscono il ruxolitinib. Inoltre, sono in studio farmaci con meccanismi d’azione diversi potenzialmente in grado di modificare l’evoluzione della malattia.
  • La leucemia mieloide cronica(LMC) è una neoplasia mieloproliferativa caratterizzata da un tipico danno cromosomico (cromosoma Philadephia o Ph+) che si origina dalla modifica di 2 cromosomi normali. Infatti, una parte del cromosoma 9 e del cromosoma 22 “traslocano” invertendo la loro posizione [t(9;22)]. La traslocazione porta alla formazione di una proteina alterata (BCR/ABL) la cui attività dà origine a un incremento della proliferazione e della crescita delle cellule midollari, responsabile dell’insorgenza della malattia.
    Nella stragrande maggioranza dei casi la LMC si presenta infatti in una fase cronica, tipicamente asintomatica o quasi. Più raramente può presentarsi in fasi più avanzate: la fase accelerata, che si distingue per la progressiva perdita della capacità di maturazione delle cellule midollari, o in una fase acuta o di crisi blastica, che presenta il tipico blocco maturativo delle leucemie acute e in cui proliferano senza controllo le cellule più immature (i “blasti”, appunto). Se non adeguatamente trattata o nei rarissimi casi resistenti alle terapie attuali, una malattia all’esordio in fase cronica può evolvere poi in fase accelerata e/o blastica.INCIDENZA
    Ogni anno la LMC colpisce 1-2 persone ogni 100.000, con un’età mediana alla diagnosi di 60-65 anni e con una lieve prevalenza di uomini.Fattori di rischio
    Uno degli agenti per cui si è accertata una responsabilità dell’insorgere della malattia sono le radiazioni ionizzanti. Per altri elementi, come il benzene, esistono indicazioni in tal senso. Tuttavia, nella stragrande maggioranza dei casi, non vi sono cause identificabili.DIAGNOSI E PRESENTAZIONE CLINICA
    La quasi totalità delle diagnosi è effettuata durante la fase cronica, spesso in modo assolutamente casuale, durante i normali controlli del sangue quando si riscontra un numero di globuli bianchi elevato, spesso accompagnato da un altro numero di piastrine. Altre volte il parametro fuori norma riguarda solo il numero di piastrine (>450.000/mm3), rendendo più complicatala diagnosi.
    Nelle prime fasi i sintomi clinici possono essere completamente assenti o lievi e solitamente includono: febbricola, astenia, perdita di peso e sudorazioni notturne. In quasi la metà dei casi è possibile riscontrare una splenomegalia (ingrossamento della milza), che può essere anche molto marcato.
    La conferma della diagnosi avviene attraverso l’analisi al microscopio dello striscio di sangue e, soprattutto, con la caratterizzazione citogenetica della traslocazione cromosomica 9-22, che può essere effettuata anche da sangue periferico. Per confermare la fase di malattia è comunque necessaria una valutazione morfologica dell’aspirato midollare ed eventualmente della biopsia ossea.PROGNOSI
    La prognosi della LMC è oggi eccellente, con – per le fasi croniche della malattia – una speranza di vita quasi sovrapponibile alla popolazione generale.
    Alcuni fattori come il numero di piastrine, la percentuale di basofili e di blasti nel sangue periferico, la grandezza della milza e l’età possono influire sulla riposta alla terapia, che resta comunque ottima nella maggioranza dei casi in fase cronica. Alla diagnosi, oltre al cromosoma Ph+, è possibile che si rilevino altri difetti cromosomi aggiuntivi, alcuni dei quali posso essere associati a una risposta meno brillante ai trattamenti.
    I rari casi con esordio in fase accelerata, e soprattutto blastica, hanno un andamento meno favorevole.TERAPIA
    La terapia della LMC è stata completamente rivoluzionata dall’avvento degli inibitori delle tirosin-chinasi, che hanno inaugurato l’era delle terapie mirate. Il capostipite di questi inibitori è stato l’imatinib, ancora oggi molto utilizzato poiché ha dimostrato un ottimo profilo di sicurezza e di tossicità.
    Nei casi in cui non si ottenga una risposta al primo trattamento, o che insorgano resistenze al farmaco, i medici hanno oggi a disposizione le successive generazioni di inibitori (seconda generazione: dasatinib, nilotinib e bosutinib; terza generazione: ponatinib), che sono più potenti e molto efficaci. Dasatinib e nilotinib, possono oggi anche essere utilizzati in prima linea di trattamento al posto di imatinib. La scelta del trattamento di prima linea è quindi complessa, e tiene conto sia delle caratteristiche di malattia sia delle patologie concomitanti e dell’età del paziente. Infatti, questi farmaci hanno profili di efficacia e di tossicità differenti.
    Il primo obiettivo del trattamento è ottenere una risposta ematologica completa, che consiste nella normalizzazione dell’emocromo e la risoluzione dell’eventuale ingrossamento della milza. Questa viene ottenuta nella maggioranza dei casi entro un mese, un mese e mezzo di terapia. È poi stata dimostrata l’importanza di ottenere anche una risposta citogenetica completa, che si dimostra con la scomparsa del cromosoma Philadelphia all’esame citogenetico. Infine, è sempre più importante l’ottenimento della risposta molecolare, che permette di quantificare livelli di malattia minima residua anche molto piccoli.
    Il monitoraggio della risposta avviene quindi soprattutto con valutazioni dei valori del sangue e della biologia molecolare su sangue periferico. Nelle prime fasi di malattia, o in caso di risposta non soddisfacente, può essere necessaria anche la valutazione dell’aspirato midollare.
    In caso dell’ottenimento di una risposta molecolare profonda e persistente, è oggi possibile in alcuni casi, dopo almeno 4-5 anni di terapia ma spesso molti di più, interrompere il trattamento. In questi pazienti il monitoraggio della malattia deve essere molto più frequente. In caso di perdita della risposta molecolare, la terapia deve essere subito ripresa, consentendo di riottenere un’ottima risposta nella quasi totalità dei casi.
    Molti pazienti, pur ottenendo un’ottima risposta alla terapia, non raggiungono i criteri per sospendere il trattamento; pertanto, la terapia deve essere continuata a lungo termine, minimizzando gli effetti avversi e il rischio di tossicità, con un attento monitoraggio dei fattori di rischio, soprattutto cardiovascolari.
    Nei casi in cui non si ottenga una risposta soddisfacente coi farmaci disponibili, o se la malattia dovesse evolvere verso le fasi più avanzate, un’opzione terapeutica per i pazienti relativamente giovani è rappresentata dal trapianto allogenico di cellule staminali. Ma questi sono casi oggi molto poco frequenti.RICERCHE FUTURE
    La ricerca è oggi indirizzata al miglioramento delle possibilità di poter sospendere il trattamento, attraverso l’utilizzo di combinazioni di farmaci o con la scelta di trattamenti più efficaci, mai dimenticando le potenziali tossicità.
    Per i pazienti resistenti ha recentemente mostrato risultati incoraggianti l’asciminib, un nuovo inibitore in grado di bloccare la proteina mutata BCR-ABL con meccanismo differente rispetto agli inibitori classici, e a cui potrebbe essere anche combinato. Questo farmaco non è ancora approvato in Italia.
  • La policitemia veraè una neoplasia mieloproliferativa di tipo cronico, in cui le normali cellule midollari crescono troppo, pur mantenendo la capacità di maturare e differenziarsi nelle normali cellule del sangue.
    La malattia è caratterizzata da un rilevante aumento del numero di globuli rossi (eritrociti) a cui spesso si affianca anche un aumento di globuli bianchi e piastrine, seppure in maniera di solito meno rilevante. L’anormale quantità di globuli rossi rende il sangue meno fluido e può causare problemi di circolazione alle estremità e un aumentato rischio di trombosiil maggior pericolo per chi soffre di questa patologia.
    In casi infrequenti, e solitamente dopo numerosi anni di storia di malattia, è possibile un’evoluzione verso una fase fibrotica, e più raramente verso una forma di leucemia acuta.
    Nella gran parte dei casi (oltre il 95%) la policitemia vera è caratterizzata da una specifica mutazione del gene JAK2, che porta all’attivazione di una via di proliferazione cellulare. Questa si traduce in un incremento dei valori dei globuli rossi e delle altre cellule del sangue.INCIDENZA
    La malattia ha un’incidenza stimata tra 2,3-2,8 casi ogni 100.000 persone e colpisce in prevalenza maggiormente gli uomini, con un rapporto 1,2:1.
    La comparsa è tipica di una fase di età abbastanza avanzata, con un’età media alla diagnosi di circa 60 anni; i pazienti al di sotto dei 40 anni rappresentano solo il 5% dei casi.Presentazione clinica e DIAGNOSI
    La malattia è spesso asintomatica e viene rivelata nel corso di normali analisi di routine. A volte possono essere presenti sintomi legati all’aumento della viscosità del sangue, come formicolii a mani e piedi e ronzii alle orecchie. Può anche essere presente rossore al volto, bruciore alle estremità o prurito, specie dopo la doccia. Talvolta si rileva poi un incremento delle dimensioni della milza.
    Gli elevati valori di emoglobina, dei globuli rossi e dell’ematocrito (il rapporto fra i globuli rossi e il resto delle componenti del sangue) sono un segno distintivo della malattia e uno dei criteri diagnostici. Per porre la diagnosi si ricerca poi la mutazione di JAK2 con un esame di biologia molecolare, e si dosano i livelli di eritropoietina, che è di solito ridotta. Per definire meglio il quadro della malattia e confermare la diagnosi, nella stragrande maggioranza dei casi si effettua oggi anche la biopsia osteomidollare.PROGNOSI
    La policitemia vera presenta un andamento lento, con ottima sopravvivenza a lungo termine. Tuttavia, rimane una malattia cronica, a oggi non del tutto eradicabile.
    Gli eventi trombotici rappresentano la principale complicanza. Per questa ragione la valutazione puntuale del profilo di rischio del paziente è fondamentale. Vengono valutati l’età, la storia di precedenti eventi trombotici ma anche fattori di rischi cardiovascolare come ipertensione, valori elevati di colesterolo e fumo.
    Le alterazioni citogenetiche sono relativamente infrequenti, ma possono avere un impatto sul rischio di evoluzione della malattia.TERAPIAIl principale obiettivo terapeutico è quello di ridurre il rischio di trombosi del paziente, riportando l’ematocrito a un valore inferiore al 45% tramite salassi regolari, cioè il periodico prelievo di moderate quantità di sangue, e l’utilizzo della cardioaspirina, che riduce l’aggregazione delle piastrine. Inoltre, importante è la correzione dei fattori di rischio cardiovascolare.
    Nei pazienti a più altro rischio, cioè quelli sopra i 60 anni o con storia di trombosi, o nei casi con globuli bianchi e piastrine elevate o scarsa tolleranza ai salassi, è solitamente raccomandato un trattamento citoriduttivo, in grado di ridurre la proliferazione delle cellule del midollo. La terapia di prima linea è stata storicamente l’idrossiurea, farmaco chemioterapico a basse dosi che ha dimostrato la capacità di ridurre il rischio di trombosi e sicurezza a lungo termine. Tuttavia, sono possibili tossicità, specie a livello della pelle.
    Nei pazienti più giovani o non responsivi all’idrossiurea viene considerato l’uso dell’interferone alfa, specie nella sua formulazione a lunga durata, l’interferone “pegilato”. Studiato anche nelle forme a basso rischio, presenta eccellente sicurezza a lungo termine, anche se può essere associato a effetti avversi tipo-influenzali e a più rare complicanze autoimmuni. Nei pazienti resistenti all’idrossiurea è stato recentemente approvato l’inibitore di JAK1-2 ruxolitinib, farmaco che ha anche particolare efficacia sui sintomi sistemici come sudorazioni e prurito e sull’ingrossamento della milza.
    Nei pazienti anziani che non rispondono o non tollerano l’idrossiurea vengono talvolta impiegati farmaci alchilanti, come il busulfano.PARTICOLARITÀ
    La malattia provoca un peculiare disturbo che si innesca a contatto con l’acqua: il prurito acquagenico. La sua origine non è nota e i sintomi clinici non sono facilmente trattabili, anche se farmaci come interferone e ruxolitinib possono essere efficaci.RICERCHE FUTURE
    Uno degli obiettivi principali di ricerca nella policitemia vera è individuare molecolare in grado di colpire il colone della malattia per eliminarla e impedire la possibile evoluzione. Diverse classi di farmaci sono in studio, ma con risultati ancora molto preliminari.
  • La leucemia linfatica cronica(LLC) è una malattia dei linfociti B maturi. A una iniziale proliferazione di “cloni” (copie identiche della cellula originale) linfocitari segue il coinvolgimento delle strutture linfatiche che aumentano di dimensione (linfonodi, fegato e milza).
    La LLC è anche caratterizzata da una condizione di immunodepressione che favorisce l’insorgere di infezioni o complicazioni con caratteristiche autoimmuni. Possibile, anche se non frequentemente, la comparsa di neoplasie secondarie.
    Le cause alla base della malattia non sono conosciute ma è stata osservata una possibile relazione a seguito dell’utilizzo di pesticidi nelle attività agricole. Inoltre, è possibile l’esistenza di una predisposizione di tipo familiare, poiché tra i familiari di rari pazienti sono state riscontrate altre patologie di tipo linfoproliferativo, compresa la stessa LLC.
    È possibile che la LLC evolva in un tipo di linfoma denominato sindrome di Richter, che ricorda per le sue caratteristiche quello diffuso a grandi cellule. Tale condizione si rileva in circa il 10% dei casi e rappresenta una forma di malattia molto aggressiva.INCIDENZA
    La LLC è la forma di leucemia più frequente negli adulti in occidente e l’incidenza è stimata in 5 casi ogni 100.000 persone. La malattia è tipica dell’età più avanzata con il 40% delle diagnosi effettuate oltre i 75 anni e solo il 15% entro i 50 anni. L’età media alla diagnosi è di circa 70 anni, con una leggera prevalenza degli uomini rispetto alle donne.DIAGNOSI
    La diagnosi si basa principalmente sulla valutazione numerica, morfologica e immunofenotipica dei linfociti leucemici. La malattia viene scoperta solitamente nel corso di normali analisi di routine, al riscontro di un numero di linfociti superiore alla norma (>5000/μl) e in assenza di un quadro clinico sintomatico.
    Successivamente al primo riscontro seguono la diagnosi morfologica, effettuata su striscio di sangue periferico, e la caratterizzazione immunofenotipica delle cellule, che presentano caratteristiche particolari.
    Una procedura diagnostica approfondita è fondamentale per la caratterizzazione della:

    • stadiazione della malattia;
    • stratificazione del rischio e prognostica;
    • programmazione della terapia.
    • Dal punto di vista clinico, per definire lo stadio della malattia si utilizzano di solito due classificazioni: Rai Binet.

Negli stadi iniziali, la malattia è sostanzialmente asintomatica e/o con un minimo coinvolgimento delle strutture linfatiche. Nel gli stadi intermedi aumenta il coinvolgimento delle strutture linfatiche, mentre negli stadi avanzati si osservano anche anemia e/o piastrinopenia.

FATTORI PROGNOSTICI E ANDAMENTO CLINICO
La LLC è una malattia dal decorso estremamente eterogeneo. Accanto a forme di malattia che rimangono stabili per anni, si presentano forme aggressive che evolvono rapidamente.
Nella gran parte dei casi è comunque una malattia che progredisce lentamente e, nel caso dei pazienti più anziani (>75 anni), può essere difficile riscontrare una differenza dell’aspettativa di vita rispetto alla popolazione generale.
Oltre allo stadio, negli anni sono stati individuati diversi fattori clinici, ma quelli oggi più rilevanti sembrano essere genetico-molecolari: lo stato mutazionale delle immunoglobuline, proteine di superficie presenti sui linfociti e che riflette l’origine delle cellule della LLC, ha un impatto prognostico e terapeutico riconosciuto; sono poi importanti le alterazioni cromosomiche, come quelle che coinvolgono il cromosoma 11 e il 17, e mutazioni di geni come il TP53, in quanto influenzano enormemente la scelta terapeutica.
Tali analisi approfondite vengono infatti solitamente effettuate solo nei pazienti che necessitano di essere trattati, e non in quelli asintomatici.

TERAPIA
A fronte della complessità della malattia, la strategia terapeutica non è scontata e deve essere valutata in relazione a molti fattori, primi fra tutti lo stadio di malattia.
Nei pazienti asintomatici con stadio iniziale solitamente il paziente non viene trattato, ma mantenuto sotto osservazione fino all’eventuale evoluzione della malattia.
Nei pazienti che presentano criteri di trattamento, come l’anemia, la piastrinopenia, un ingrossamento importante di milza o linfonodi o la rapida crescita dei globuli bianchi, la scelta terapeutica dipende da età e condizioni del soggetto, valutazione del rischio della malattia e delle sue caratteristiche biologiche.
Nei pazienti giovani, con malattia che presenta caratteristiche favorevoli di risposta alla terapia, vengono utilizzati schemi di chemioterapia associata ad anticorpi monoclonali che colpiscono solitamente il CD20 (molecola di superficie dei linfociti), come il rituximab e l’obinotuzumab. Nei pazienti più anziani l’intensità e il tipo di chemioterapia vengono adattate.
Lo scenario terapeutico è stato peraltro rivoluzionato dall’avvento degli inibitori tirosin-chinasici specifici, come l’idelalisib, inibitore delle PI3Kdelta, e soprattutto l’ibrutinib, inibitore della tirosin-chinasi di Bruton. Tali inibitori agiscono bloccando vie di proliferazione dei linfociti, che sono molto attive nella LLC, risultando così nell’arresto della crescita delle cellule leucemiche. L’ibrutinib viene oggi utilizzato precocemente, nei pazienti che presentano caratteristiche che predicono scarsa risposta alla chemioterapia o in recidiva.
L’avvento di venetoclax – inibitore di BCL2 che agisce favorendo le vie di morte cellulare dei linfociti della LLC – ha rappresentato poi un enorme passo avanti, con risultati molto positivi – da solo o in combinazione – sia in pazienti recidivati sia in linea precoce.
Grazie ai nuovi farmaci, l’utilizzo della chemioterapia è quindi molto più limitato rispetto al passato.

PARTICOLARITÀ
Quando il numero di linfociti B clonali è >5000/μl e non sono presenti linfonodi o organi ingrossati, ma le cellule hanno un profilo immunofenotipico compatibile con la LLC, si parla di linfocitosi B-monoclonale. Si tratta di una condizione benigna, ma che può essere predisponente a una evoluzione in LLC.

RICERCHE FUTURE
La ricerca nella LLC si focalizza oggi sullo sviluppo di nuovi inibitori tirosin-chinasici, come acalabrutinib, inibitore della tirosin-chinasi di Bruton, caratterizzato da un profilo di tossicità diverso rispetto a ibrutinib e che sarà presto disponibile. Inoltre, sono in studio combinazioni diverse dei vari farmaci disponibili, con lo scopo di ottenere una risposta maggiormente profonda, raggiungendo – ci si augura –la negativizzazione della malattia minima residua.

  • La trombocitemia essenziale (TE) è una neoplasia mieloproliferativa cronicacaratterizzata da un consistente aumento delle piastrine e, quale conseguenza diretta, dall’aumento di eventi trombotici. Talvolta, un numero molto elevato di piastrine può portare a un loro malfunzionamento, con conseguente paradossale rischio aumentato di sanguinamento.
    Le cause della malattia non sono note e, pur presentando delle caratteristiche comuni alle altre neoplasie mieloproliferative croniche, non sono state evidenziate con certezza relazioni causa-effetto. In circa il 60% dei casi è presente la mutazione del gene JAK2, analogamente alla policitemia vera.
    Nelle TE possono essere presenti alternativamente altre mutazioni che portano sempre alla proliferazione dei precursori midollari delle piastrine, che coinvolgono i geni CALR e più raramente MPL. In un certo numero di TE non è riscontrata nessuna delle tre mutazioni tipiche.INCIDENZA
    L’incidenza è stimata in circa 1,5-2,4 casi ogni 100.000 persone, simile a quella della policitemia vera. La malattia è più frequente nelle donne e l’età media alla diagnosi è circa 60 anni, ma non sono infrequenti i casi di pazienti sotto i 40 anni. Sebbene estremamente rari, sono stati descritti casi di malattia che si presenta in più componenti della stessa famiglia.DIAGNOSI
    L’indicatore principale per una diagnosi è rappresentato da un valore di piastrine elevato (>450.000/μl) che deve però essere confermato nel tempo e non avere altre cause che possano spiegarlo, quali la carenza di ferro o l’infiammazione. Per la conferma diagnostica vengono poi ricercate le mutazioni di JAK2 e, in sua assenza, di CALR o di MPL.
    Per la diagnosi risulta essere fondamentale anche la biopsia osteomidollare, che consente di discriminare la malattia da “forma vera” a forma “iniziale mielofibrosi o mielofibrosi prefibrotica” sulla base della morfologia dei megacariociti (i precursori midollari delle piastrine) e della presenza appunto di iniziale fibrosi.
    La scoperta della malattia viene solitamente effettuata in modo casuale a seguito di analisi di controllo. La malattia infatti è frequentemente asintomatica, ma in una ristretta porzione di persone si riscontrano disturbi del microcircolo, come formicolii, cefalea, ronzii nelle orecchie, o eventi trombotici o emorragici. La splenomegalia (ingrossamento della milza) può essere presente anche se generalmente moderata.PROGNOSI
    La malattia ha un decorso molto lento, che di solito non incide in modo rilevante sull’aspettativa di vita del paziente.
    Nelle forme classificate come “iniziale mielofibrosi o mielofibrosi prefibrotica” è un po’ più frequente l’evoluzione della malattia in mielofibrosi.TERAPIA
    Per la definizione della migliore terapia è fondamentale la valutazione del rischio trombotico del paziente.
    Nei pazienti a minor rischio trombotico, cioè quelli giovani con mutazione di CALR e assenza di fattori di rischio cardiovascolare, non viene di solito utilizzata la terapia antiaggregante, perché potrebbe aumentare il rischio di sanguinamento. Questi casi vengono solitamente solo monitorati nel tempo.
    Negli altri pazienti viene utilizzato l’antiaggregante (di solito cardioaspirina), a cui viene anche aggiunta una terapia citoriduttiva per ridurre il numero di piastrine se essi presentano storia di trombosi precedente o età superiore ai 60 anni. Talvolta il numero di piastrine sale moltissimo, e può rendersi necessario iniziare una terapia specifica anche in assenza di criteri di elevato rischio trombotico.
    La terapia citoriduttiva consiste nell’idrossiurea o, per i pazienti più giovani, nell’interferone. Nei pazienti che falliscono l’idrossiurea può anche essere impiegato l’anagrelide, farmaco che riduce la produzione di piastrine agendo sulla maturazione dei loro precursori.PARTICOLARITÀ
    Come per la policitemia vera, la trombocitemia essenziale è a volte diagnosticata in donne con età inferiore ai 40 anni, che possono essere in gravidanza e che devono essere quindi attentamente seguite da ematologo e ostetrico per il più elevato rischio di complicanze.RICERCHE FUTURE
    Oltre alla ricerca di farmaci attivi nei soggetti resistenti a idrossiurea e interferone, la ricerca si sta focalizzando sull’ottimizzazione del dosaggio della cardioaspirina. In alcuni pazienti potrebbe infatti servire un dosaggio più elevato per prevenire il rischio trombotico.
  • La leucemia mielomonociticacronica (LMMC) è la più frequente delle sindromi mielodisplastico-mieloproliferative, ed è una malattia caratterizzata dall’aumento di una specifica popolazione di globuli bianchi: i monociti.
    Le sindromi mielodisplastico-mieloproliferative sono un gruppo di patologie a cavallo fra le neoplasie mieloproliferative croniche, in quanto presentano spesso una proliferazione eccessive delle cellule del sangue, e le sindromi mielodisplastiche, con cui condividono una maturazione anormale dei precursori del midollo.
    La LMMC è una malattia eterogenea, che compare solitamente in età avanzata e che può presentarsi in una forma displastica, in cui prevalgono anemia e neutropenia, oppure in una forma proliferativa, con un numero elevato di globuli bianchi. Vi è sempre un eccesso di monociti nel sangue e nel midollo, e un numero variabile di cellule immature (“blasti”).
    La prognosi, in maniera simile ma non uguale alle sindromi mielodisplastiche, viene stimata da diversi score, che considerano i valori dell’emocromo, il numero dei blasti, il valore dei globuli bianchi, la citogenetica e, più recentemente, la mutazione in alcuni geni specifici come l’ASXL1.Il trapianto allogenico di cellule staminali è l’unico trattamento con potenzialità curative, ma in molti casi – in considerazione dell’elevata età della maggioranza dei pazienti – è di difficile attuazione. Viene comunque raccomandato nei casi ad alto rischio.
    Nei casi ad alto rischio non candidabili a trapianto può essere impiegata l’azacitidina e, nei casi proliferativi, l’idrossiurea per controllare la conta dei globuli bianchi.
    In caso di anemia, nei pazienti a basso rischio può essere utilizzata l’eritropoietina.
  • Le sindromi mielodisplastiche (SMD) rappresentano un insieme di malattie originate dalla progressiva perdita di capacità di normale maturazione delle cellule della linea mieloide, che porta dunque a una riduzione del numero di globuli rossi, bianchi e/o e piastrine di gravità variabile, e a un’alterazione del loro normale funzionamento.
    In una porzione rilevante di casi la malattia potrebbe ulteriormente evolvere e trasformarsi in una leucemia mieloide acuta(LMA). Tuttavia, il rischio di evoluzione è molto diverso in base al sottotipo di malattia, e vi sono forme con andamento destramente lento a bassissima probabilità di trasformazione.
    D’altra parte, l’evoluzione della malattia può essere acuta, con un rapido deterioramento dei parametri clinici, o subdola, con un modesto peggioramento dei sintomi già esistenti.INCIDENZA
    Le SMD hanno un’incidenza annuale stimata che si aggira sui 5 casi ogni 100.000 persone. Sono tipiche dell’età avanzata: rare prima dei 50 anni, l’età media alla diagnosi si aggira sui 70 anni.Fattori di rischio
    Le SMD non hanno molto spesso una causa evidente. Sappiamo che l’esposizione al benzene, a prodotti chimici con potenzialità genotossica, al fumo, sono fattori di rischio correlati alla malattia. E sappiamo anche che l’esposizione a farmaci chemioterapici o radiazioni ionizzanti può favorire l’insorgenza della malattia, anche a distanza di anni.
    Negli ultimi anni sono emerse poi delle forme familiari, che rappresentano comunque una percentuale bassa dei casi e che si associano a particolari mutazioni genetiche. Queste vanno considerate soprattutto, anche se non esclusivamente, nei pazienti che sviluppano la malattia in giovane età.DIAGNOSI
    Le SMD sono state storicamente suddivise in 5 gruppi di malattia, seguendo la classificazione FAB – French-American-British, basata sui valori di emocromo e sul numero di “blasti”, le cellule più immature, nel midollo osseo e nel sangue periferico.
    La complessità delle SMD ha comunque richiesto un nuovo tentativo di classificazione, effettuata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che inserendo anche le conoscenze acquisite sulla genetica della malattia ha portato a 8 le classi totali della malattia.
    Si tratta di malattie con un’insorgenza che può non essere immediatamente evidente. In genere l’attenzione del medico viene sollecitata a seguito della rilevazione di uno stato di anemia, che può essere asintomatico per un tempo dipendente dalla velocità con cui la malattia si espande e la capacità di adattamento dell’organismo alla diminuzione di emoglobina. Oltre allo stato di anemia, alla diagnosi possono essere evidenti anche neutropenia, con rischio di infezioni, e piastrinopenia, che se grave si può presentare con manifestazioni emorragiche cutanee (petecchie, ecchimosi o ematomi).
    Per la diagnosi, accanto alla valutazione dell’emocromo si effettua la valutazione dello striscio di sangue periferico, che consente di evidenziare la presenza di eventuali cellule immature circolanti e di anomali nell’aspetto di globuli bianchi rossi e piastrine. È poi fondamentale la valutazione morfologica dell’aspirato midollare, che consente di stabilire la diagnosi definitiva attraverso la dimostrazione delle anomalie nell’aspetto dei precursori delle cellule del sangue (displasia) e il conteggio del numero di blasti, fondamentale per la classificazione, la prognosi e poi per la terapia, così come lo studio citogenetico.
    Da ricordare che le SMD sono caratterizzate da numerose alterazioni morfologiche e biologico molecolari delle cellule come eritrociti, leucociti e piastrine.PROGNOSI
    A causa delle numerose variabili che caratterizzano la malattia, non è semplice prevedere il tipo di decorso clinico, che è estremamente eterogeneo. Grazie a studi su un numero di pazienti molto elevato, sono state sviluppate scale di valutazione del rischio che prendono in considerazione diversi parametri clinico-biologici.
    Il sistema di classificazione più utilizzato è chiamato R-IPSS (Revised International Prognostic Scoring System), e suddivide i pazienti in 5 gruppi di rischio sulla base della gravità delle citopenie (piastrinopenia, anemia e neutropenia), il numero dei blasti e le anomalie citogenetiche. I cinque gruppi hanno un andamento molto diverso fra di loro e beneficiano di trattamenti distinti.
    Più recentemente, la scoperta di mutazioni in numerosi geni grazie a moderne tecniche di biologica molecolare ha consentito di meglio definire categorie a basso rischio, come quelle con mutazione di SF3B1, o a rischio più elevato, come quelle con mutazione del gene TP53.TERAPIE
    La strategia terapeutica viene decisa essenzialmente sulla base dell’età del paziente, del suo stato di salute generale, della presenza di concomitanti malattie e in relazione al rischio prognostico determinato dalle scale di valutazione, soprattutto l’R-IPSS.
    Nei pazienti a rischio basso-intermedio la terapia, in caso di valori dell’emocromo ancora buoni, può limitarsi all’osservazione periodica del paziente, oppure può richiedere l’uso di fattori di crescita, specie l’eritropoietina ricombinante per i soggetti anemici. Il supporto trasfusionale rimane fondamentale nei pazienti anemici non responsivi ad eritropoietina e nei pazienti severamente piastrinopenici, per i quali non sono approvate terapie molto efficaci.
    Nei pazienti con un particolare tipo di SMD a basso rischio che presentano alterazioni del braccio lungo del cromosoma 5 (5q-) e con anemia non responsiva ad eritropoietina, si è dimostrato molto efficace il trattamento con lenalidomide, un farmaco immunomodulante con un’azione specifica per questa anomalia.
    Nei pazienti a rischio alto la terapia standard è rappresentata dall’azacitidina, un agente in grado di favorire la differenziazione delle cellule della malattia ed ha dimostrato un miglioramento della sopravvivenza
    Nelle SMD l’unica terapia potenzialmente guaritiva rimane il trapianto di cellule staminali ma viste le tossicità potenzialmente severe è riservato a pazienti relativamente giovani e con rischio di malattia intermedio-alto. Per ridurre il numero dei blasti nel midollo, in alcuni casi prima del trapianto viene utilizzato un trattamento con chemioterapia intensiva oppure con azacitidina.Nuovi farmaci
    Per i pazienti a basso rischio con anemia non responsiva ad eritropoietina e con determinate caratteristiche, come la presenza di cellule dette “sideroblasti ad anello”, è stato studiato il luspatercept, farmaco con un innovativo meccanismo d’azione in grado di migliorare la maturazione dei precursori dei globuli rossi, che dovrebbe essere presto disponibile.Per i pazienti con piastrinopenia è invece in studio l’eltrombopag, farmaco in grado di stimolare la crescita dei precursori delle piastrine.
    Infine, in alcuni casi una formulazione orale dell’azacitidina ha dimostrato di essere in grado di migliorare anemia e piastrinopenia. Entrambi i farmaci non sono al momento approvati per tale indicazione.
    Nei pazienti a rischio alto, gli sforzi sono oggi concentrati nel migliorare i risultati ottenuti con l’azacitidina, e numerosi farmaci sono in sperimentazione in combinazione con essa.

LINFOMI

I linfomi sono tumori causati dalla proliferazione incontrollata di un particolare tipo di globulo bianco: il linfocita. Il linfocita è una cellula – essenziale per il nostro sistema immunitario – che contribuisce a mantenerci al sicuro da agenti esterni.

Se ne riconoscono due sottotipi che, in base all’origine cellulare: più frequente è quello della cosiddetta linea B, mentre più rari, almeno nelle popolazioni occidentali, sono quelli della cosiddetta linea T.

In seguito alla comparsa di mutazioni che possono coinvolgere un numero elevato di geni che regolano la loro proliferazione, crescita e morte, i linfociti possono acquisire la capacità di replicarsi in modo incontrollato. Ciò permette loro di invadere e accumularsi nei linfonodi, la sede più comune in cui si localizzano tali patologie (ma possono localizzarsi anche in qualsiasi altro organo), generando così il linfoma.

Anche se i fattori che possono dare origine alla malattia sono in gran parte sconosciuti, è noto che infezioni da alcuni virus o batteri, così come alcune malattie croniche, aumentano il rischio di sviluppare alcuni sottotipi di linfoma.

A causa delle molteplici mutazioni che, per di più, possono insorgere in diverse fasi dello sviluppo del linfocita, le caratteristiche dei linfomi sono estremamente variabili.

I linfomi comunque possono essere suddivisi in due gruppi:

  1. Linfoma di Hodgkin, dovuto alla trasformazione dei linfociti B che presentano caratteristiche cliniche e biologiche specifiche
  2. Linfoma non Hodgkin, in cui possono essere coinvolti entrambe le tipologie di linfociti (B e T).

La modalità di crescita e di progressione di malattia sono un altro aspetto importante per la classificazione: si parla di linfomi indolenti per i sottotipi con lenta progressione della malattia; e di linfomi aggressivi in caso di crescita rapida.

Sia la strategia terapeutica da attuare sia la prognosi dipendono dalla tipologia di malattia e dalla sua velocità di progressione.

  • Il linfoma di Hodgkin (LH) è una forma di tumore che si origina dai linfociti e che più frequentemente coinvolge i linfonodi della metà superiore del corpo (collo, ascelle, torace), ma qualunque organo può essere potenzialmente interessato.Come per altre malattie del sangue, non è di solito noto quali siano le cause alla base della malattia e non sono identificati specifici fattori di rischio. Una possibile eccezione è data dal virus Epstein-Barr, che spesso è riscontrato nei pazienti con LH.INCIDENZAOgni anno circa 3-4 persone ogni 100.000 abitanti contraggono un LH che, quindi, è considerato una malattia relativamente rara. Non bisogna però dimenticare che nell’ambito della popolazione di età compresa fra i 15 e i 35 anni il LH rappresenta una delle forme tumorali più frequenti.DIAGNOSI e PRESENTAZIONE clinicaNella maggior parte dei casi, il primo sintomo del LH è il rilevamento, spesso casuale, di linfonodi aumentati di volume al collo, ascelle o inguine, non motivati da infezioni. Altri sintomi posso essere la presenza di febbricola ofebbre persistente, sudorazioni notturne profuse, perdita di peso o prurito irrefrenabile.In presenza di tali sintomi è fondamentale rivolgersi al proprio medico perché, se affrontata in fase iniziale, la malattia richiede trattamenti meno aggressivi e meno tossici.Talvolta i linfonodi ingrossati dalla proliferazione tumorale si trovano in sedi profonde, come il mediastino (regione anatomica situata nel torace, fra i polmoni) o l’addome; in tali casi i linfonodi possono raggiungere dimensioni considerevoli prima di essere riconosciuti, e possono manifestarsi con segni indiretti come tossedifficoltà respiratoria o dolore addominale.La diagnosi richiede l’asportazione chirurgica del tessuto patologico (solitamente un linfonodo), anche se talvolta può bastare un agobiopsia con ago a scatto, e il successivo esame istologico, che richiederà sia una valutazione morfologica dell’aspetto del tessuto e delle cellule sia uno studio immunoistochimico per valutare i marcatori specifici delle cellule linfomatose.Una particolarità del LH è che la massa tumorale non è costituita dall’esclusivo accumulo di cellule patologiche ma da una moltitudine di cellule infiammatorie normali, fra le quali si osserva una piccola quota (2-3%) di cellule malate, dette cellule di Reed-Sternberg, che presentano un aspetto caratteristico.STADIAZIONEUna volta ottenuta la diagnosi istologica è necessario effettuare la stadiazione della malattia. La diagnostica per immagini si avvale della TAC (tomografia assiale computerizzata, procedura radiologica) e della PET (tomografia ad emissione di positroni, metodica in grado di valutare l’attività metabolica delle cellule), indispensabili per l’esatta definizione delle sedi della malattia.Lo stadio dipende dall’estensione della malattia, che viene valutata in base alla presenza di una o più localizzazioni, alla loro sede, e alla presenza di coinvolgimento di organi al di fuori dei linfonodi.Lo stadio viene poi differenziato in A o B sulla base della presenza o meno di sintomi (febbre persistente, sudorazioni notturne profuse, perdita di peso).TERAPIAIl trattamento prevede oggi invariabilmente uno schema di polichemioterapia, solitamente somministrata in regime ambulatoriale e di day hospital, con disagi relativamente limitati. Lo schema di terapia di riferimento, più diffusamente impiegato in prima linea è l’ABVD, dalle iniziali dei farmaci che lo compongono (adriamicina, detta anche doxorubicina; bleomicina; vinblastina; dacarbazinia). I quali hanno meccanismi d’azione diversi, che consentono una sinergia d’azione nell’eliminare le cellule del linfoma. In base allo stadio, viene definito il numero di cicli necessari (da 2 a 6) e l’eventuale radioterapia di consolidamento. La risposta viene valutata con la TAC, e un ruolo essenziale lo riveste la PET, grazie alla sua capacità di valutare l’attività metabolica delle cellule della malattia.Anche nel LH esiste una quota, fortunatamente minoritaria, di pazienti in cui la malattia assume caratteri di aggressività e resistenza alle cure, oppure si ripresenta (recidiva) dopo aver ottenuto una remissione completa di malattia. In tali pazienti vengono utilizzati di solito schemi di polichemioterapia di salvataggio, vengono raccolte cellule staminali e il paziente viene candidato a un trapianto autologo.Nei casi in cui falliscano le terapie precedenti, viene talvolta considerato il trapianto allogenico di cellule staminali.Nuovi farmaci e immunoterapiaNegli ultimi anni sono stati studiati nuovi farmaci, che rappresentano delle importanti possibilità terapeutiche nei pazienti che falliscono i trattamenti standard.Il brentuximab vedotin, anticorpo monoclonale anti-CD30 coniugato a una molecola antitumorale, è stato molto studiato nel LH, data l’espressione elevata da parte delle cellule della malattia dell’antigene CD30, e ha dimostrato notevole efficacia in monoterapia nei pazienti recidivati e refrattari. Il farmaco è stato anche studiato in combinazione con agenti chemioterapici, come la bendamustina, e in prima linea di trattamento assieme a chemioterapia oppure come mantenimento dopo trapianto autologo nei pazienti a più alto rischio.Sono poi molto studiati gli inibitori del checkpoint, come nivolumab e pembrolizumab, farmaci in grado di colpire un sistema di inibizione della sorveglianza immunitaria (PD1 e PD-L1). In questo modo il sistema immunitario del paziente riacquista nuovamente la capacità di attaccare le cellule del linfoma e di eliminarle. La particolare ricchezza di cellule immunitarie potrebbe spiegare i maggiori successi di tale approccio nel LH rispetto ad altri tipi di linfoma.PARTICOLARITÀAccanto alla variante classica, che rappresenta circa il 95% dei casi, esiste una variante di LH definita a predominanza linfocitaria nodulare, o paragranuloma, con caratteristiche biologiche diverse, andamento più indolente e presentazione spesso in stadi localizzati. Il trattamento di questa forma può consistere nella sola osservazione, nella radioterapia localizzata, nell’immunoterapia con l’anticorpo monoclonale anti-CD20 rituximab, che non può essere utilizzato nella forma classica perché non esprime il marcatore CD20, oppure la chemioimmunoterapia.
  • linfomi non Hodgkin (LNH) sono neoplasie che originano dai linfociti(B e T), cellule del sistema immunitario presenti nel sangue, nel tessuto linfatico di linfonodi, milza, timo e midollo osseo.Le cause dai LNH non sono ancora del tutto chiare, ma esistono fattori che sembrano aumentare il rischio di malattia. Tra i fattori clinici vengono indicati uno stato di immunodepressionemalattie autoimmuni o infezioni virali croniche, come l’epatite C, o infezioni batteriche, come quella da Helicobacter pylori, che rappresenta la prima causa di linfoma primitivo dello stomaco.INCIDENZAI LNH rappresentano globalmente il 4-5% delle nuove diagnosi di neoplasia nella popolazione occidentale e in Italia sono la quinta forma di cancro più comune negli uomini e la sesta nelle donne. L’età mediana di insorgenza è compresa tra i 50 e 60 anni e l’incidenza tende a incrementare con l’aumentare dell’età. Il LNH può tuttavia presentarsi a ogni età. In Italia si calcolano 15-18 nuovi casi per 100.000 abitanti ogni anno.DIAGNOSI e STADIAZIONEI LNH hanno una variabilità clinica importante. A oggi sono identificate più di 40 forme diverse di LNH, ciascuna delle quali è caratterizzata da un peculiare quadro istologico, immunoistochimico e genetico-molecolare a cui segue un diverso andamento clinico e quindi uno specifico approccio terapeutico.In caso di sospetta diagnosi di LNH è innanzitutto necessario sottoporsi rapidamente a una accurata visita medica. L’ingrossamento dei linfonodi del collo, ascelle o inguine in assenza di dolore è spesso il più frequente e unico segno di linfoma. Possono essere presenti sintomi sistemici come febbresudorazione notturnaperdita di peso e prurito persistente.La diagnosi di LNH viene posta esclusivamente attraverso la biopsia di un intero linfonodo o di un campione congruo della massa tumorale. Le tecniche di agoaspirato linfonodale non assicurano l’attendibilità della diagnosi e non sono quindi sufficienti per una corretta caratterizzazione del tumore mentre l’agobiopsia può essere adeguata. Il tessuto prelevato deve essere analizzato da un emolinfopatologo esperto, in quanto un’accurata diagnosi istopatologica rappresenta la base per il successo delle future cure. A completamento della diagnosi possono essere necessarie in alcuni sottotipi anche metodiche di FISH, che consentono di individuare specifiche traslocazioni geniche, che consentono di meglio definire il sottotipo di linfoma. Le mutazioni geniche individuate con metodiche di biologia molecolare rivestono un ruolo sempre maggiore, anche se non sono ancora utilizzate routinariamente eccetto in alcuni sottotipi.Una volta posta la diagnosi, il paziente deve essere sottoposto a ulteriori esami strumentali al fine di stabilire l’esatta estensione della malattia. La TAC (tomografia assiale computerizzata, procedura radiologica) è essenziale nella stadiazione della malattia, ma negli ultimi anni è andato diffondendosi sempre più l’impiego della PET (tomoscintigrafia a emissione di positroni), specie in alcuni sottotipi di malattia. Oltre che nella fase di stadiazione iniziale, la PET può essere impiegata accanto alla TAC nella rivalutazione della risposta alla terapia poiché permette una valutazione funzionale di attività della malattia presente. Per tale motivo la negatività della PET è considerata tra i criteri fondamentali per definire la risposta completa al trattamento in alcuni sottotipi di malattia.La valutazione midollare con l’aspirato e la biopsia ossea viene spesso effettuata a completamento della stadiazione, per definire se il linfoma ha invaso tali sedi.In alcune forme aggressive, viene anche valutata la presenza di un’eventuale localizzazione a livello del sistema nervoso centrale con una puntura lombare diagnostica.TERAPIAStoricamente, i LNH vengono suddivisi in linfomi indolenti (basso grado di malignità) e linfomi aggressivi (alto grado di malignità).I linfomi indolenti presentano un andamento clinico più lento, che in genere consente una sopravvivenza di molti anni, anche quando non si ottiene l’eradicazione della malattia. In alcuni casi, selezionati in base alla presentazione clinica e all’età, il paziente nella fase iniziale può essere osservato in assenza di terapia (watch and wait) e quindi poi trattato se la malattia presenta una progressione clinica nel tempo.Negli ultimi anni un grosso passo avanti dal punto di vista terapeutico è stato dato dall’utilizzo di anticorpi monoclonali, come il rituximab e l’obinotuzumab, in particolare diretti contro l’antigene CD20 espresso da tutti i linfomi a cellule B. tali anticorpi hanno permesso di aumentare l’efficacia del trattamento rispetto alla sola chemioterapia.Sebbene presentino elevate percentuali di remissioni e risposte durature con i moderni approcci di terapia, i linfomi indolenti tendono a ripresentarsi anche a distanza di diversi anni.Tra i linfomi indolenti la forma più frequente è il follicolare, varietà che in base all’estensione di malattia e all’età del paziente può non richiedere trattamento, necessitare di una radioterapia localizzata, di anticorpi monoclonali da soli o in combinazione con chemioterapia. Sono poi disponibili nuove opzioni terapeutiche per pazienti non responsivi, specie se anziani, come l’immunomodulante lenalidomide in combinazione con il rituximab.L’altra varietà comune di linfoma indolente è il marginale, che può coinvolgere i linfonodi ma spesso si localizza in maniera esclusiva o prevalente in altri organi, come lo stomaco o la milza. Alcune forme di linfoma marginale gastrico sono legate all’infezione da Helicobacter pylori, e possono andare in remissione in seguito all’eradicazione di questo, così come alcune forme di marginale splenico possono rispondere al trattamento del virus dell’epatite C se concomitante. In altri casi, è invece richiesta la chemioimmunoterapia.I linfomi aggressivi sono caratterizzati da un decorso clinico più rapido, che richiede spesso un trattamento tempestivo. La forma più frequente è il linfoma B diffuso a grandi cellule, che rappresenta da solo circa il 40% di tutti i linfomi aggressivi. Diversi studi hanno chiaramente dimostrato anche in queste forme il beneficio della combinazione di chemioterapia convenzionale (CHOP, combinazione di ciclofosfamide, vincristina doxorubicina e del cortisone) con l’anticorpo monoclonale rituximab (R-CHOP), con ottime possibilità di remissione a lungo termine di malattia. Nei pazienti anziani sono impiegate spesso dose ridotte dei chemioterapici. Nei pazienti a più alto rischio di recidiva a livello del sistema nervoso centrale vengono anche somministrate punture lombari medicate con farmaci chemioterapici e/o farmaci ad alte dosi che penetrano a tale livello, come il metotrexato ad alte dosi.In caso di recidiva il trapianto autologo è considerato, allo stato attuale, la terapia standard del paziente fino a 65-70 anni di età. Questo viene effettuato dopo aver effettuato una chemioterapia di salvataggio, che consente di ridurre la quantità di malattia e di facilitare la raccolta delle cellule staminali necessarie per il trapianto. Il trapianto da donatore (trapianto allogenico) comporta rischi maggiori; pertanto, la decisione sul suo impiego richiede una valutazione molto accurata del paziente e del suo stato di malattia, e viene oggi utilizzato meno frequentemente in questa patologiaNei pazienti recidivati dopo terapia e non candidabili a trapianto stanno emergendo nuovi farmaci, come polatuzumab vedotin, un anticorpo monoclonale anti-CD79b coniugato a un farmaco antitumorale, o farmaci chemioterapici innovativi come il pixantrone.Alcune forme di linfoma aggressivo presentano un andamento particolarmente rapido e richiedono un approccio più intensivo dell’R-CHOP. Vengono utilizzati regimi polichemioterapici complessi + anticorpi monoclonali che non possono essere somministrati in regime di day hospital, ma richiedono spesso ricoveri abbastanza prolungati. Tali forme includono il linfoma di Burkitt e i cosiddetti linfomi duble e triple hit.Una forma particolare di linfoma aggressivo è il linfoma cerebrale, che nei pazienti giovani richiede regimi chemioterapici ad alte dosi in grado di penetrare nel sintema nervoso centrale, spesso seguiti dal trapianto autologo.Il linfoma mantellare è poi un sottotipo particolare, che accanto a forme aggressive può talvolta presentare un andamento più cronico e indolente. Nella maggioranza dei casi, il trattamento dei giovani richiede polichemioterapia più complessa del solo R-CHOP, spesso seguita dal trapianto autologo già in prima linea. Sta emergendo sempre più il ruolo di nuovi farmaci molto attivi in questa varietà, come l’ibrutinib, inibitore della tirosin-chinasi di Bruton, e il venetoclax, inibitore di BCL2.Infine, i linfomi di linea T sono un gruppo molto eterogeno, spesso con andamento piuttosto aggressivo. Il trattamento prevede polichemioterapia tipo CHOP, associata a volte ad altri farmaci come l’etoposide. Recentemente, è emerso il ruolo dell’anticorpo monoclonale anti-CD30 coniugato a molecola antitumorale brentuximab vedotin in alcune forme di linfoma T esprimenti il CD30. Stanno poi emergendo molecole in grado di colpire specificamente alterazioni presenti in alcuni sottotipi di linfoma, anche se tali farmaci non sono ancora approvati attualmente.PARTICOLARITÀL’avvento delle cellule CAR T ha rivoluzionato le possibilità terapeutiche dei pazienti con linfoma diffuso a grandi cellule recidivati e refrattari a più linee di terapia. Grazie a modifiche del loro recettore, cha va così a colpire le cellule della malattia, i linfociti ingegnerizzati sono in grado di attaccare il linfoma, ottenendo remissioni prolungate in una proporzione significativa di pazienti. Più recentemente, il ruolo della terapia con CAR T sta emergendo anche in altre forme di linfoma B, come il mantellare.

MIELOMA

I mielomi e le gammopatie sono patologie caratterizzate dall’alterazione di particolari cellule del sistema immunitario: le plasmacellule.
Le plasmacellule sono localizzate nel midollo osseo e producono gli anticorpi. In condizioni normali ogni plasmacellula produce un anticorpo leggermente differente dagli altri e ciò consente al nostro sistema immunitario di ampliare la sua capacità di risposta verso gli agenti esterni.

Nelle gammopatie monoclonali interviene invece una trasformazione che fa sì che la plasmacellula cominci a replicarsi in modo non controllato, generando cloni di sé stessa e producendo numerose copie dello stesso anticorpo (monoclonale).

Il motivo per cui questo accade non è ancora chiaro anche se, come è possibile vedere in molte altre malattie ematologiche, si pensa che alcuni fattori ambientali (esposizione a radiazioni, sostanze tossiche) o biologici (virus) possano avere un qualche ruolo nel processo di trasformazione.

Le gammopatie monoclonali possono essere suddivise in due forme principali:

  • Mieloma multiplo, che rappresenta la forma neoplastica.
  • Gammopatia monoclonale di significato indeterminato (detta MGUS, monoclonal gammopathy of undetermined significance), condizioni generalmente benigne che necessitano però di monitoraggio.
  • L’amiloidosiè una patologia rara, caratterizzata da un accumulo di aggregati proteici anomali che si depositano in diversi tessuti del corpo, con conseguente danno d’organo.Esistono molte forme di amiloidosi, le più comuni delle quali sono la AA e la AL:
  • Nella AA la proteina di accumulo è definita amiloide sierica A e la patologia è legata a infiammazione cronica.
  • Nella forma AL si riscontrano invece depositi derivanti da frammenti delle immunoglobuline, in particolare delle loro catene leggere.

L’amiloidosi AL è una malattia di pertinenza ematologica e si associa alla presenza di malattie linfoproliferative, in particolare il mieloma multiplo, talvolta anche in forma pre-sintomatica o di gammopatia monoclonale di significato incerto (detta MGUS, monoclonal gammopathy of undetermined significance).
Le immunoglobuline hanno regioni ad alta variabilità nella struttura, per consentire loro di riconoscere i diversi germi che possono attaccare l’organismo. Alcune mutazioni in punti specifici delle catene immunoglobuliniche possono innescare dei meccanismi di autoassemblamento. Questi formano dei depositi che, stabilizzati da un’altra proteina, non vengono correttamente eliminati e digeriti dalle cellule deposte a farlo: i macrofagi. Con il passare del tempo i depositi si accumulano in diverse zone del corpo provocando rilevanti danni d’organo, in particolare a renicuore e tratto gastrointestinale.
La presentazione della malattia può essere subdola e difficile da riconoscere per lunghi periodi, anche se talvolta sono presenti segni caratteristici – come l’ingrossamento della lingua o un particolare tipo di emorragie intorno agli occhi. A volte prevalgono sintomi legati alla perdita di proteine dal rene (con l’accumulo di liquidi a livello degli arti e dell’addome), alla neuropatia periferica, allo scompenso cardiaco o al malassorbimento intestinale con conseguente perdita di peso.
Sulla base del danno d’organo, specie cardiaco, vengono definiti diversi gruppi di rischio della malattia, che necessitano di approccio differenti: ad esempio, i pazienti con danno cardiaco maggiore sono più delicati e richiedono trattamenti meno intensivi.
L’approccio terapeutico è simile a quello utilizzato per il mieloma multiplo, anche se talune combinazioni di farmaci sono leggermente diverse. L’eleggibilità al trapianto autologo di cellule staminali è fortemente influenzata dal danno cardiaco.
Recentemente, l’avvento di anticorpi monoclonali anti-CD38 (come il daratumumab) ha offerto nuove possibilità terapeutiche per questa complessa patologia.

  • La gammopatia monoclonale di significato indeterminato(detta MGUS, monoclonal gammopathy of undetermined significance) è una condizione MGUS generalmente benigna, dovuta alla proliferazione eccessiva di plasmacellule, cellule immunitarie che producono gli anticorpi. Più raramente, specie nel caso di MGUS di tipo IgM (immunoglobuline di tipo M), la proteina anomala può essere prodotta da un linfocita atipico e non da una plasmacellula.
    Si distingue dal mieloma multiplo per il più limitato numero di plasmacellule presenti nel midollo (inferiore al 10%) e per l’assenza di sintomi clinici tipici ad esempio del mieloma multiplo. Proprio a causa di questo stato clinico silente gran parte delle diagnosi avviene casualmente, a seguito di valori alterati rilevati durante i controlli di routine, quando viene richiesto una valutazione dei tipi di proteine del sangue.
    Tale condizione è caratterizzata dalla presenza di una componente monoclonale o paraproteina, ossia un anticorpo (o immunoglobulina) con caratteristiche specifiche che viene prodotto in quantità eccessiva.
    A seconda della popolazione di immunoglobuline coinvolte si possono diverse tipologie di MGUS; le più comuni sono:
  • MGUS non IgM, solitamente IgG (immunoglobulinedi tipo G) il sottotipo più frequente.
  • MGUS IgM, che possono a volte associarsi a linfomi indolenti.
  • MGUS con produzione esclusiva di catene leggere, la parte più piccola dell’immunoglobulina.

INCIDENZA
La MGUS ha un’incidenza abbastanza elevata nella popolazione sana. I dati riguardanti la popolazione statunitense mostrano che è presente in circa il 3-4% della popolazione con età superiore ai 50 anni. L’incidenza aumenta peraltro con l’aumentare dell’età.

DIAGNOSI
La diagnosi viene posta in seguito al riscontro della proteina anomala nel sangue o più raramente nelle urine, dopo aver escluso che ci si tratti di una forma sintomatica di mieloma.

FATTORI PROGNOSTICI ED EVOLUZIONE
Non è possibile prevedere con certezza il rischio di evoluzione di una MGUS in una malattia neoplastica vera e propria, anche se globalmente il rischio è basso. Sulla base del tipo di MGUS e di diverse valutazioni che stimano la quantità della proteina anomala nel sangue e nelle urine si possono però individuare i casi a rischio più elevato di trasformazione, che necessitano di controlli più stretti e talvolta di approfondimenti diagnostici.
Nel complesso si possono distinguere i pazienti a seconda dell’evoluzione della malattia:

  • Nella maggioranza dei casi la malattia non evolverà e i livelli di paraproteine non aumenteranno nel corso degli anni; tali pazienti condurranno una vita normale e moriranno per cause non correlate alla MGUS.
  • In alcuni dei pazienti i livelli di paraproteina aumenteranno ma non a livelli tali da sviluppare una malattia.
  • In altri pazienti invece la malattia evolverà in un mieloma multiplo, o in una macroglobulinemia di Waldenström. L’evoluzione può attuarsi in un periodo di tempo estremamente variabile dalla diagnosi.

TERAPIA
I pazienti con MGUS non necessitano di alcuna terapia specifica. L’obiettivo principale è quello di rilevare tempestivamente l’eventuale evoluzione della malattia e per tale ragione vengono pianificati regolari controlli medici ogni 3-6 mesi, e poi – se stabile – annualmente.

PARTICOLARITÀ
Molto raramente, pur senza evolvere a mieloma multiplo, le gammopatie monoclonali possono portare a disturbi che coinvolgono vari organi come il rene, con meccanismi diversi dal mieloma.

  • La macroglobulinemia di Waldenström (MW) è una malattia caratterizzata dalla proliferazione di linfoplasmociti, linfociti che stanno maturando verso lo stadio di plasmacellule. Questi crescono nel midollo osseo, con produzione di elevate quantità di immunoglobuline di tipo M (IgM) nel sangue, a volte accompagnate dall’aumento di dimensione degli organi linfatici: linfonodi, milza e fegato.I sintomi possono essere aspecifici, soprattutto connessi alla produzione di IgM e alla conseguente iperviscosità che causa problemi di microcircolo (formicolii, sonnolenza, cefalee o emicranie, ecc.). Segni clinici possono essere osservati nel fondo dell’occhio e possono esserci anche piccole emorragia delle mucose (frequente la perdita di sangue dal naso).Generalmente la malattia si presenta dunque in modo subdolo, anche con sintomi di anoressia e astenia che tendono a peggiorare con il decorso.INCIDENZA
    La MW è una malattia rara, con un’’incidenza stimata è di 3-4 casi su 1 milione persone (dati USA). Colpisce con prevalenza gli uomini rispetto le donne ed è una patologia tipica degli anziani, con un’età media alla diagnosi che si aggira sui 65-70 anni.

DIAGNOSI
Nella maggior parte dei casi la diagnosi viene posta casualmente, a seguito di disturbi che possono essere confusi anche con quelli legati all’età. I fattori dirimenti sono il riscontro di un aumento di IgM monoclonali e la presenza nel midollo emopoietico di linfoplastociti. Oltre all’analisi dell’aspetto delle cellule e alle loro caratteristiche valutate con l’immunofenotipo, la biologia molecolare può essere d’aiuto. Una particolare mutazione del gene MYD88 è infatti presente in circa il 90% dei casi, e può contribuire a distinguere la MW da altre condizioni quali il mieloma multiplo.

FATTORI PROGNOSTICI
La valutazione del rischio del paziente viene effettuata considerando diversi parametri clinici e di laboratorio come età, trombocitopenia, valori di IgM.

TERAPIA
La MW ha solitamente un andamento cronico benigno e ai pazienti asintomatici non va somministrato alcun trattamento. Vanno però seguiti attentamente con visite regolare nel tempo, a intervalli, compresi tra i 2 e i 6 mesi.Per i pazienti che presentano sintomi clinici è necessario iniziare un trattamento, che consiste spesso in combinazioni di chemioimmunoterapia, contenti l’anticorpo monoclonale anti-CD20 rituximab. Anche l’inibitore del proteasoma bortezomib, molto usato nel mieloma multiplo, è attivo in questa patologia.Più recentemente, l’inibitore della tirosin-chinasi di Bruton ibrutinib ha dimostrato notevole efficacia per la cura della MW, sia in casi recidivati sia in pazienti in prima linea non candidabili a chemioimmunoterapia.

PARTICOLARITÀ
I pazienti con valori molto elevati di IgM possono necessitare sedute di plasmaferesi, una procedura che rimuove le immunoglobuline anomale dal sangue, per migliorare i sintomi legati alla viscosità elevata del sangue e cominciare il trattamento in sicurezza.I pazienti con valori molto elevati di IgM possono necessitare sedute di plasmaferesi, una procedura che rimuove le immunoglobuline anomale dal sangue, per migliorare i sintomi legati alla viscosità elevata del sangue e cominciare il trattamento in sicurezza.

  • Il mieloma multiplo(MM) è una malattia causata dalla trasformazione neoplastica di una cellula della linea B linfocitariadetta plasmacellula. La malattia è caratterizzata dalla presenza di numerose alterazioni genetiche che possono accumularsi e portare alla trasformazione dalla forma benigna, la gammopatia monoclonale, alla fase neoplastica, quella di MM. Esiste una condizione intermedia, detta di mieloma indolente o smouldering, caratterizzata dalla presenza di una quantità elevata di plasmacellule e componente monoclonale. Tale condizione non richiede ancora trattamento, ma un monitoraggio molto più stretto della gammopatia, visto il rischio più elevato di trasformazione in MM vero e proprio.
    IL MM è caratterizzato da lesioni ossee Esse sono causate da uno squilibrio tra il processo di produzione dell’osso (da parte degli osteoblasti) e il processo di distruzione dello stesso (da parte degli osteoclasti), imputabile alle plasmacellule del mieloma. Il sintomo più comune della malattia è proprio rappresentato dal dolore osseo, dovuto spesso a fratture patologiche. Inoltre, il danno osseo può a volte portare a ipercalcemia. La proliferazione delle plasmacellule a livello del midollo compromette poi la normale produzione delle cellule del sangue, in particolare dei globuli rossi, causando anemia e quindi astenia e stanchezza. Altri sintomi possono essere l’insufficienza renale, dovuta di solito alla precipitazione nel rene delle proteine anomale prodotte dalle plasmacellule del mieloma. Più raramente possono manifestarsi sintomi neurologici, ad esempio a causa di cedimenti vertebrali.INCIDENZA
    Il MM rappresenta circa il 10% delle patologie ematologiche e insorge tipicamente in età avanzata, con una media alla diagnosi intorno ai 60 anni.DIAGNOSI
    Nella maggior parte dei pazienti la fase di MM sintomatico è preceduta da una gammopatia monoclonale, solitamente asintomatica e quindi di difficile identificazione. Circa il 25% dei casi viene scoperto in modo casuale nel corso di analisi di routine. Il MM viene definito sintomatico, o attivo, quando è causa di un danno d’organo (osteolisi, anemia, insufficienza renale, ipercalcemia).
    La diagnosi viene posta sulla base di tre elementi: presenza di una componente monoclonale a livello del sangue o delle urine, presenza di plasmacellule a livello midollare e presenza di danno d’organo correlato.PROGNOSI E FATTORI PROGNOSTICI
    Nel corso degli ultimi anni la prognosi della malattia è notevolmente migliorata grazie a nuovi farmaci e all’ottimizzazione di strategie terapeutiche, con un netto incremento delle possibilità di ottenere remissioni di malattia prolungate e lunghe sopravvivenze.
    Età e malattie concomitanti del paziente sono fattori prognostici perché influiscono direttamente sull’applicabilità delle opzioni terapeutiche.
    La presentazione della malattia – valutata attraverso parametri di laboratorio come albumina, B2-microglobulina e lattato deidrogenasi (LDH) – e le alterazioni genetiche – valutate attraverso la FISH (metodica in grado di individuare alterazioni ricorrenti dei cromosomi) – consentono di stimare il rischio individuale di ogni paziente, e le probabilità di remissione prolungata di malattia.
    L’analisi dell’attività metabolica residua tramite PET (tomografia a emissione di positroni) e la valutazione della malattia minima residua attraverso metodiche di immunofenotipo e biologia molecolare rivestono poi un ruolo importante nel valutare la risposta alla terapia, fattore che ha un notevole impatto sulla prognosi.TERAPIA
    Nella fase di malattia non ancora attiva l’approccio è di tipo attendistico. Si organizza un’osservazione attenta del paziente secondo tempistiche dettate dallo stato della malattia e dalla probabilità che questa possa evolvere. I più recenti criteri diagnostici hanno equiparato il MM indolente ad alto rischio di progressione, senza chiaro danno d’organo ma con malattia molto estesa (ad esempio con plasmacellule midollari >60%) al mieloma sintomatico, che merita quindi un trattamento specifico nell’immediato.
    Per definire il programma terapeutico, i pazienti vengono solitamente classificati in base all’eleggibilità al trapianto autologo di cellule staminali, che dipende da età e patologie concomitanti. Il trapianto di cellule staminali autologhe è infatti la terapia d’elezione per i pazienti con età e condizioni fisiche generali ottimali. I pazienti candidabili ricevono per prima cosa una terapia di induzione allo scopo di ridurre al minimo la quantità di malattia e migliorare il più possibile il danno d’organo. La terapia di induzione include solitamente almeno tre farmaci, fra i quali sono presenti spesso un’immunomodulante, tipo talidomide, un inibitore del proteasoma come il bortezomib e il cortisone. Sono state proposte anche triplette differenti, con farmaci di nuova generazione o con chemioterapici utilizzati al posto dell’immunomodulante. Una volta ottenuta una risposta almeno parziale, i pazienti vengono sottoposti alla raccolta di cellule staminali, spesso preceduta da una chemioterapia che favorisce la mobilizzazione delle cellule staminali dal midollo al sangue periferico, e quindi al trapianto autologo. Dopo il trapianto viene talvolta impiegata successivamente una terapia di consolidamento.
    Per i pazienti non candidabili al trapianto , i trattamenti prevedono l’utilizzo in combinazione di numerosi farmaci, che consentono oggi di ottenere buone risposte nella maggioranza dei casi.
    Dopo le prime fasi di terapia, si programma una terapia di mantenimento estesa nel tempo, in grado di prolungare la durata di remissione della malattia.
    Recentemente, il panorama di trattamento del MM è stato rivoluzionato dall’avvento degli anticorpi monoclonali, come l’anti-CD38 daratumumab, che sono stati integrati in diversi schemi di trattamento sia in prima linea sia in caso di recidiva, con notevole miglioramento delle risposte cliniche.
    Sono poi in studio nuovi farmaci mirati, come l’inibitore di BCL2 venetoclax, che sembra particolarmente attivo in alcuni sottotipi genetici.PARTICOLARITÀ
    Alcune forme di mieloma si presentano in forma leucemica, caratterizzata da un elevato numero di plasmacellule tumorali nel sangue periferico. Tali forme, assai rare, sono definite leucemie plasmacellulari, caratterizzate da andamento clinico aggressivo, che può richiedere un trattamento più intensivo. I nuovi farmaci sembrano avere un impatto positivo anche in queste forme.RICERCHE FUTURE
    Nuove forme di immunoterapia stanno ampliando enormemente le possibilità terapeutiche dei pazienti che non rispondono più ai trattamenti standard, anche se per ora sono disponibili solo nell’ambito di protocolli clinici. Fra questi gli anticorpi bi-specifici, che attivano il sistema immunitario contro le cellule della malattia, e le cellule CAR T, linfociti ingegnerizzati in grado di attaccare il mieloma grazie a un recettore specifico.

ALTRE PATOLOGIE

Oltre a leucemielinfomi e mielomi, esistono numerose altre malattie del sangue le cui caratteristiche cliniche non rientrano nei precedenti gruppi e che quindi vengono raccolte in questa sezione. Molte di tali condizioni sono benigne e reversibili dopo un breve trattamento, mentre altre sono croniche e possono richiedere terapie o monitoraggio a lungo termine.

L’anemia è una condizione definita dalla diminuzione dei livelli di emoglobina al di sotto di una soglia limite. Tale valore, influenzato dal sesso dell’individuo, si attesta sui 13 g/dl per l’uomo e 12 g/dl per la donna. Nei pazienti più anziani valori inferiori ai 12 g/dl sono in generali considerati la soglia che definisce l’anemia sia negli uomini sia nelle donne.

L’emoglobina ha come funzione principale quella di trasportare le molecole di ossigeno a tutte le cellule del corpo per poi raccogliere il prodotto di scarto (anidride carbonica) che sarà poi definitivamente smaltito durante il transito del globulo rosso nei polmoni, dove il ciclo ricomincia.

La riduzione di emoglobina porta quindi a una riduzione del trasporto di ossigeno ai tessuti. Nelle forme lievi, i sintomi sono limitati solitamente alla stanchezza. Le forme severe possono invece essere molto pericolose, con rischio di danni a diversi organi. Esistono diversi meccanismi di adattamento all’anemia, per cui le forme con esordio veloce porteranno a sintomi molto più severi rispetto quelle con esordio lento, a parità di livelli di emoglobina. Anche l’età e le altre patologie hanno un impatto sui sintomi e i rischi dell’anemia.

Le cause dell’anemia sono moltissime, e generalmente possono essere differenziate in forme dovute a una scarsa produzione da parte del midollo, per esempio per carenza di ferro o alcune vitamine, o quelle in cui vi è una distruzione dei globuli rossi, oppure un sanguinamento.

Inizialmente, eccetto nei casi con una causa molto chiara, vengono anzitutto valutati la grandezza dei globuli rossi, indicata dal valore corpuscolare medio (o MCV) all’emocromo, e il valore dei reticolociti, globuli rossi immaturi. Sulla base di tali esiti, il medico può orientarsi sulle possibili cause dell’anemia e richiedere eventuali approfondimenti.

Le diverse forme vengono gestite in maniera differente, e sono dettagliate singolarmente nelle pagine specifiche per ciascun tipo di anemia considerata.

FORME DI ANEMIA

  • ANEMIE CARENZIALI – ACIDO FOLICO
    L’acido folico è una vitamina che nella sua forma metabolicamente attiva (tetraidrofolato) è coinvolto nei processi di sintesi del DNA (acido desossiribonucleico), necessaria per la duplicazione di tutte le cellule del corpo.L’uomo non è in grado di sintetizzare i folati (con il termine “folati” vengono indicati sia l’acido folico di origine sintetica presente in integratori e alimenti fortificati che le sue forme naturalmente presenti nel cibo; sono noti anche come vitamina B9), e li deve assumere interamente dagli alimenti che li contengono, soprattutto vegetali verdi come asparagi, broccoli, spinaci, piselli e lattuga, usando l’accortezza di consumarli a crudo. Esistono anche folati che non si distruggono nella cottura poiché legati alle proteine della carne e del fegato. In ogni caso una normale dieta apporta una quantità almeno doppia rispetto alla necessità richiesta di 75-1000 μg giornalieri.

I folati sono presenti sotto forma di polimeri che, dopo un processo di digestione enzimatica, vengono resi assorbibili. Come nella carenza di vitamina B12, è fondamentale che vi sia un corretto assorbimento della sostanza da parte dell’intestino, poiché possono nascere degli stati di carenza laddove questo non venga garantito. I sintomi sono simili a quelli della carenza di B12, anche se in questo caso non si riscontrano i danni neurologici. In caso di gravidanza, in particolare nel corso dell’ultimo trimestre, la richiesta di folati aumenta di 5-10 volte la norma.

DIAGNOSI

La carenza viene spesso sospettata in seguito al riscontro di un’anemia con globuli rossi grandi (macrocitica) e con un numero di globuli rossi immaturi (reticolociti) basso, indicativo quindi di una produzione ridotta di globuli rossi da parte del midollo.

La diagnosi è confermata con il dosaggio dei livelli sierici dell’acido folico che, per quanto soggetti ad ampia variabilità, dovrebbero avere un valore compreso tra 5-15 ng/ml.

La carenza è frequente riscontrata in caso di abuso di alcol, dove una dieta inadeguata è associata a un malassorbimento dovuto al danneggiamento delle cellule intestinali tipico degli etilisti cronici. In altri casi la carenza si instaura per un malassorbimento dovuto a:

  • alterazione della normale mucosa intestinale, come nella celiachia;
  • perdita della mucosa intestinale a seguito di interventi chirurgici;
  • dieta molto povera di vegetali, soprattutto a foglia verde;
  • assunzione di taluni farmaci, come certi tipi di antiepilettici.

TERAPIA

La terapia, che punta al superamento dello stato carenziale e al ripristino delle riserve, prevede la somministrazione di acido folico in dose compresa tra 5-15 mg/giorno per via orale. Qualora esistano indicazioni di malassorbimento per un danneggiamento delle cellule intestinali, la terapia verrà somministrata per via parenterale. In gravidanza, a prescindere dal riscontro di eventuali carenze, una terapia di supporto con acido folico viene sempre consigliata.

 

  • ANEMIE CARENZIALI -B12
    Le cause alla base di una carenza di vitamina B12possono essere molteplici. La vitamina B12 è presente in numerosi alimenti (carne, pesce, uova, latte e latticini), ragion per cui una normale dieta assicura il fabbisogno giornaliero di 1-3 μg. Inoltre, bisogna considerare che abbiamo riserve comprese tra 2500-5000 μg e che, in caso di carenza alimentare, esse si riducono in modo molto limitato, pari a circa lo 0,1% giornaliero. Ecco perché possono passare anche molti anni prima che si manifestino i sintomi di una carenza della vitamina B12. Tuttavia, in caso di diete vegane prolungate, negli anni può svilupparsi un deficit.La carenza è imputabile più spesso a difetti nella produzione del fattore intrinseco o alla riduzione dell’assorbimento intestinale, che può anche essere causata da farmaci.Il fattore intrinseco è una proteina prodotta dallo stomaco, che serve a legare la vitamina B12 e trasportarla fino alla parte finale dell’intestino tenue, l’ileo, dove il complesso viene assorbito grazie ad appositi recettori presenti sulle pareti intestinali. La mancanza di fattore intrinseco comporta il malassorbimento della vitamina e, visto il suo ruolo nella sintesi del DNA (acido desossiribonucleico), anche il rapido degradarsi delle cellule intestinali per il loro mancato ricambio.Una delle forme più comuni, l’anemia perniciosa (descritta per la prima volta nel 1849, da Thomas Addison) è causata da una gastrite cronica atrofica. Questo tipo di gastrite è presente in circa il 2% degli adulti al di sopra dei 60 anni e nel caso dell’anemia è di tipo autoimmune, con anticorpi diretti contro il fattore intrinseco e le cellule dell’intestino. Tali forme possono a volte essere associate ad altre malattie autoimmuni, come la tiroidite.DIAGNOSI
    È spesso sospettata in seguito al riscontro di un’anemia con globuli rossi molto grandi (macrocitica) e con un numero di globuli rossi immaturi (reticolociti) basso, indicativo quindi di una produzione ridotta di globuli rossi da parte del midollo. Nelle forme severe può essere presente anche un calo di piastrini e globuli bianchi.In caso grave anemia possono comparire i sintomi classici come asteniadispneacardiopalmo, vertigini e ronzii auricolari. La malattia in casi severi può inoltre causare lesioni neurologiche che, a causa della demielinizzazione delle terminazioni nervose, sono in gran parte irreversibili anche dopo supplementazione della vitamina.La conferma diagnostica di solito richiede il dosaggio della vitamina nel sangue, che dimostrerà una carenza. All’esame dello striscio di sangue periferico si possono osservare globuli rossi molto grandi, e granulociti neutrofili con un aspetto particolare, il nucleo ipersegmentato.Anche a seguito di anemia perniciosa, possono passare anni prima che si presenti una malattia conclamata.TERAPIA
    La terapia standard prevede la somministrazione della vitamina B12, spesso in associazione con acido folico. Nel caso di anemia perniciosa la somministrazione sarà per tutta la vita, mentre negli altri casi possono essere sufficienti somministrazioni di più breve durata. La somministrazione è di solito per via intramuscolare, ma nei casi senza severo malassorbimento può a volte essere scelta la formulazione orale.

 

  • ANEMIA FALCIFORME
    L’anemia falciforme (detta anche drepanocitosi) è un’emoglobinopatia, cioè una malattia che deriva da un difetto qualitativo, e non quantitativo, dell’emoglobina.Similmente alla β-talassemiaanche questo disordine genetico ha un carattere autosomico recessivo. I pazienti con solo una copia del gene mutata si presentano quindi non malati, ma con un rischio di complicazioni in condizioni particolari (tratto falciforme). Per sviluppare la malattia vera e propria è richiesta invece la presenza di una mutazione su entrambe le copie del gene coinvolto nella malattia.La mutazione colpisce la catena β-globinica, una delle parti che vanno a costituire l’emoglobina, in cui la sostituzione di un singolo aminoacido dà vita alla forma HbS. Questo tipo alterato di emoglobina è insolubile e tende a formare degli aggregati quando la concentrazione di ossigeno scende sotto una certa concentrazione, come a livello dei capillari lontani dai polmoni.La formazione di tali aggregati fa sì che l’intero globulo rosso venga distorto e assuma la tipica forma falciforme. Lo stesso globulo rosso può però, per diverse volte, tornare alla sua forma normale transitando nei capillari polmonari, dove la presenza di ossigeno permette agli aggregati di scomporsi e tornare alla normale funzione. Purtroppo, in ognuno di questi passaggi la membrana cellulare del globulo rosso si danneggia fino all’irreversibile trasformazione falciforme.INCIDENZA
    La malattia è diffusa nel bacino del Mediterraneo e anche nell’Africa tropicale. In Italia la regione maggiormente colpita è la Sicilia, dove non è infrequente osservare anche una sovrapposizione con i geni talassemici, dando così vita alla talasso-drepanocitosi.DIAGNOSI
    I primi sintomi si presentano nei bambini a 3-6 mesi e le manifestazioni cliniche, sia acute sia croniche, possono apparire in tempi variabili, anche dopo molti anni.PROGNOSI E ANDAMENTO CLINICO
    Le crisi vasocclusive possono rappresentare la prima manifestazione della malattia e sono dovute al rallentamento circolatorio a causa dei globuli rossi che hanno assunto la tipica forma a falce e ostruiscono il capillare.
    Spesso i primi sintomi sono a carico delle mani e dei piedi. In generale il rischio degli incidenti vascolari è alto. Tali eventi possono provocare problematiche come la sindrome polmonare acutaproblemi cerebrali seri, il sequestro e/o infarto splenico della milza, priapismo. Possono inoltre insorgere complicanze croniche a carico dei polmoni (ipertensione polmonare), degli occhi, dei reni.
    La malattia può mostrare segni di anemia emolitica cronica, che può portare anche a frequenza elevata di calcolosi biliare. Inoltre, già nell’ infanzia si manifesta anche una suscettibilità alle infezioni, dovuta al malfunzionamento della milza danneggiata dall’ostruzione di vasi legate alla malattia. Elevata anche l’incidenza di eventi cerebro vascolari. Con il procedere degli anni, in assenza di trattamento adeguato, prevalgono le manifestazioni dolorose e le complicanze come l’ipertensione polmonare o l’insufficienza renale, le due principali cause di morte nell’adulto.TERAPIA
    Deve essere principalmente profilattica, mirata a contenere i fattori che possono scatenare una crisi. È previsto il supporto con acido folico e la completa profilassi vaccinale, a volte può essere valutata la profilassi antibiotica in alcuni contesti. Trasfusioni di sangue sono valutate nel caso di un’anemia sintomatica e nei casi a maggior rischio di complicanze.
    Le crisi venocclusive possono essere molto dolorose ed è quindi necessario intervenire con un trattamento analgesico di adeguata efficacia e appropriata terapia di supporto.
    L’idrossiurea viene utilizzata spesso, in quanto in grado di incrementare la percentuale di emoglobina fetale, e di conseguenza ridurre la percentuale di emoglobina anomala, con conseguente ridotto rischio di complicanze.
    La L-glutammina è un’altra opzione valutata in alcuni casi, poiché grazie alle sue proprietà antiossidanti ha dimostrato di ridurre la frequenza di crisi dolorose e altre complicanze.
    Il trapianto di midollo potrebbe essere risolutivo: viene valutato con attenzione per i giovani con una qualità e prospettive di vita compromesse, bilanciando benefici e rischi della procedura, che restano significativi.PARTICOLARITÀ
    Paradossalmente, il portatore eterozigote ha un vantaggio selettivo verso la malaria, ossia ha un rischio minore di sviluppare una forma grave di questa infezione, e ciò spiega anche la diffusione della malattia nei paesi dove essa è, o era, come in Italia, più diffusa.NUOVI FARMACI e RICERCHE FUTURE
    Nuovi farmaci sono stati studiati per ridurre la probabilità di crisi vaso-occlusive, come il crizanlizumab, anticorpo monoclonale contro una molecola di adesione, la P-selectina, in grado quindi di ridurre l’adesione delle cellule del sangue ai vasi e prevenirne così l’occlusione.
    Sono inoltre in fase avanzata di studio farmaci come il voxelotor capace di ridurre l’aggregazione delle molecole di HbS, l’emoglobina anomala dell’anemia falciforme, con conseguente riduzione del rischio di ostruzioni vascolari e di emolisi.
    Sono poi in fase di sperimentazione tecniche di terapia genica, con cui si sta cercando di eliminare, sostituendola, la catena beta mutata, ripristinando così la condizione normale del globulo rosso.

 

  • ANEMIA DI FANCONI
    L’anemia di Fanconi(descritta per la prima volta nel 1927 dal pediatra svizzero Guido Fanconi, a cui deve il nome) è una rara forma di malattia causata da mutazioni presenti dalla nascita in geni che regolano la riparazione corretta del DNA (acido desossiribonucleico). Il loro malfunzionamento porta a instabilità genetica, che predispone all’accumulo di ulteriori anomalie, con conseguente alterata produzione delle cellule del midollo osseo, e predisposizione ad altri tipi di tumori e malformazioni.
    Nel corso degli ultimi vent’anni sono stati compiuti moltissimi progressi nella comprensione dei meccanismi genetici e fisiopatologici che sono alla base della malattia. A oggi, sono almeno una ventina i geni identificati come responsabili, di conseguenza la presentazione è molto variabile da caso a caso. Anche l’esordio delle manifestazioni può avvenire in momenti diversi. La maggioranza dei casi esordisce in età pediatrica, ma vi sono casi che si presentano con citopenia (riduzione di globuli rossi, globuli bianchi e piastrine) anche in adolescenza o età giovane-adulta, senza altre manifestazioni.Le manifestazioni della malattia possono essere suddivise in tre gruppi funzionali:
  • Anormalità somatiche:comprendono malformazioni di vario grado a carico di zone del corpo come pollici, mani, avambracci oppure come una faccia e occhi piccoli, la bassa statura e varie anormali pigmentazione della pelle. Un recente studio effettuato sulla popolazione italiana mostra come la maggior parte dei malati presenti lievi sintomi di questo tipo, meno frequentemente sono moderati o gravi, e in alcuni casi possono mancare del tutto.
  • Insufficienza midollare:è ancora la maggiore causa di problemi, e probabilmente di mortalità, di questa malattia. La citopenia appare nei bambini tipicamente fra i 5 e 10 anni di età, anche se – come detto – può esordire nell’adolescenza e oltre. Alla diagnosi, la citopenia è lieve o moderata nella gran parte dei pazienti (72%). Circa 1/3 dei pazienti migliora o mantiene il suo stato di citopenia, i rimanenti 2/3 lo peggiorano.
  • Altre malattie maligne:l’anemia di Fanconi predispone alla possibilità di sviluppare una serie di altre malattie che possono essere di tipo ematologico (sindromi mielodisplastiche, leucemia acuta mieloide) o tumori solidi, in particolare a testa e collo, esofago, vulva e cervice. Il tasso di rischio è nettamente superiore rispetto alla popolazione normale.

INCIDENZA
L’incidenza stimata della malattia è di circa 1 caso su 200.000 persone ogni anno, ma esistono popolazioni – come gli ebrei Ashkenazi e gli Afrikaner – in cui la malattia si presenta con una frequenza molto più elevata.

DIAGNOSI
La diagnosi viene frequentemente effettuata a seguito della presenza di disordini di tipo midollare o per l’osservazione delle particolari malformazioni somatiche. Su un campione di sangue periferico vengono effettuati test in grado di valutare la sensibilità delle cellule al danneggiamento in presenza di particolari sostanze citotossiche. Data l’instabilità genetica, le cellule dei pazienti con anemia di Fanconi sono più fragili, e quindi vanno incontro facilmente a danneggiamento.
La diagnosi può poi essere perfezionata dalla ricerca della mutazione genica specifica associata.
La valutazione dell’aspetto del midollo osseo si rende spesso necessaria per escludere altri tipi di malattie del midollo che possono presentare citopenia.

PROGNOSI
La prognosi è molto variabile, in funzione della severità della presentazione e del tipo di mutazione alla base della malattia. Il miglioramento delle terapie di supporto ed il perfezionamento dei regimi di condizionamento per il trapianto di cellule staminali, hanno permesso a molti pazienti sopravvivenze prolungate. Resta significativo anche in questi casi però il rischio di sviluppare altri tumori.

TERAPIA
Dopo la diagnosi i pazienti sono inseriti in un piano di monitoraggio della malattia e seguiti in centri specializzati. Una volta stabilito lo stato di malattia si definisce anche la cadenza del monitoraggio, che deve prevedere valutazioni sia ematologiche sia screening di prevenzione di altri tumori.
La più efficace opzione terapeutica per il ripristino della normale funzionalità midollare è rappresentata dal trapianto di cellule staminali, soprattutto nelle forme moderate e gravi. Il trapianto deve però essere valutato alla luce di una situazione clinica complessiva del paziente e dipende dalla disponibilità di un donatore adeguato. Per colori i quali non possono essere indirizzati a trapianto, esistono alternative terapeutiche, anche se di minore efficacia, come gli androgeni. Possono inoltre essere necessarie terapie di supporto, come trasfusioni di emazie e di piastrine e fattori di crescita.

RICERCHE FUTURE
Sono in corso ricerche cliniche circa la possibilità di effettuare una terapia genica. I primi risultati sembrano incoraggianti ma le ricerche sono ancora in una fase molto precoce dello studio sull’essere umano. Esistono anche filoni di ricerca che puntano all’identificazione di nuove molecole, in grado di stimolare l’attività del midollo e migliorare quindi i valori del sangue.

 

  • ANEMIA DA MALATTIE CRONICHE
    L’anemia da malattia cronicaè una forma di anemia che si instaura in concomitanza di altre malattie come infezioni e infiammazioni croniche, cancro, malattie del fegato, insufficienza renale e altre ancora.
    È più frequente negli anziani e tempi e modi della loro comparsa sono direttamente legati alla malattia concomitante.DIAGNOSI
    È effettuata per esclusione, dopo aver eliminato le possibili altre cause di anemia. È quindi necessario individuare la causa specifica sottostante.TRATTAMENTO
    Sipende spesso dalla possibilità di risolvere la patologia di base: in caso di risoluzione della condizione sottostante, anche l’anemia migliorerà. In altri casi può essere invece indicata una terapia specifica, come il supporto con eritropoietina ricombinante nei casi legati a insufficienza renale cronica.

 

  • ANEMIE EMOLITICHE
    Le anemie emolitichesono un gruppo eterogeno di malattie che pur presentando origini diverse possiedono un caratteristico tratto in comune: la distruzione dei globuli rossi.Una volta identificato lo stato di anemia è quindi fondamentale procedere al riconoscimento della causa che la origina, in modo da poter indirizzare la terapia. Per questo è necessario analizzare la storia clinica del paziente e dei suoi familiari alla ricerca di cause di tipo ereditario, così come mettere in relazione la comparsa degli eventi con la concomitante assunzione di farmaci, cibi o fattori ambientali. La distruzione dei globuli rossi è una caratteristica rilevabile anche in altre malattie ematologiche come le sindromi talassemiche.SFEROCITOSI EREDITARIA
    È la forma più comune tra le anemie emolitiche di tipo congenito, cioè presenti dalla nascita. La malattia è caratterizzata dall’assenza di proteine essenziali per conferire una corretta struttura alla membrana del globulo rosso. In assenza di tali elementi l’eritrocita assume una forma circolare (ellissoidale in una forma simile ma più rara, l’elissocitosi), che porta a una sua più facile distruzione.Una delle più comuni complicanze in tali condizioni è rappresentata da calcoli nella colecisti. Ma per prevenire le complicanze, soprattutto nei pazienti più giovani, e migliorare l’anemia nei casi più severi, viene valutata l’asportazione della milza (splenectomia). Prima della splenectomia sono necessarie vaccinazioni per prevenire il rischio di infezioni da alcuni batteri, da cui si è meno protetteti senza l’azione della milza.

ANEMIA EMOLITICA PER DIFETTO METABOLICO
Questo tipo di malattia è originato da un difetto del metabolismo energetico del globulo rosso, che può andare incontro a emolisi acuta a causa di uno stress ossidativo, che può essere causato dall’esposizione a particolari sostanze o farmaci. Mancano infatti in queste condizioni molecole protettive che normalmente preverrebbero il danneggiamento del globulo rosso.Il più comune deficit enzimatico è quello di un enzima detto glucosio 6-fosfato deidrogenasi, o G6PD, che porta a una condizione comunemente detta favismo. Nella maggioranza dei casi tali pazienti hanno normali valori di emoglobina, ma possono andare incontro a episodi di emolisi acuta anche molto severi in caso di assunzione di fave o alcuni farmaci. La terapia è di solito di supporto nella fase acuta con trasfusioni e idratazione, mentre consiste nella vita di tutti i giorni nell’evitare l’esposizione a fave e a farmaci pericolosi. Esistono elenchi aggiornati dei farmaci da evitare, che i pazienti devono avere a disposizione.In alcuni casi, come le forme di malattia che coinvolgono l’enzima piruvato kinasi, si instaura invece una emolisi cronica. La maggioranza dei casi viene diagnosticato in età pediatrica, ma alcuni casi più lievi possono essere individuati anche in età giovane-adulta. Mentre i casi più lievi possono non richiedere terapia, molti pazienti richiedono trasfusioni di sangue e ferrochelazione per rimuovere l’accumulo di ferro conseguente. La splenectomia viene considerata in alcuni casi. Sono in avanzata fase di sviluppo nuovi farmaci in grado di riattivare l’enzima mal funzionante, come il mitapivat.

 

ANEMIE EMOLITICHE AUTOIMMUNI
In queste forme la distruzione dei globuli rossi è dovuta alla produzione da parte del sistema immunitario dei pazienti autoanticorpi diretti contro i globuli rossi, che portano alla loro distruzione.Le anemie emolitiche autoimmuni si possono distinguere in forme primarie o secondarie, nel caso in cui la loro presenza sia associata ad un’altra patologia, ad esempio alcune forme di linfomi o la leucemia linfatica cronica.Una particolarità delle anemie emolitiche autoimmuni è data dalle manifestazioni cliniche che dipendono, oltre che dalla quantità degli autoanticorpi in circolo, anche dalla temperatura. Infatti, alcuni autoanticorpi si attivano a una temperatura di 37 °C (anticorpi caldi) mentre altri lavorano meglio a una temperatura di 4 °C (anticorpi freddi).La diagnosi viene sospettata in caso di anemia con indici di emolisi positivi (incremento dei reticolociti, della lattato deidrogenasi e della bilirubina, e riduzione dell’aptoglobina), in presenza della positività di un esame di laboratorio detto test di Coombs. Questo esame è in grado di individuare la presenza degli anticorpi che distruggono in globuli rossi e di definirne il tipo. È poi indispensabile effettuare approfondimenti diagnostici per escludere le potenziali altre patologie associate.La presentazione clinica è molto variabile, e si possono avere forme lievi e croniche, oppure manifestazioni molto acute anche molto gravi, quando i valori di emoglobina scendono molto.Il trattamento delle forme ad anticorpi caldi si basa sugli steroidi, che ottengono una risposta positiva nella maggioranza dei casi. I pazienti con risposta insoddisfacente vengono solimante utilizzate diverse classi di farmaci immunosoppressori. Il trattamento di prima linea delle forme ad anticorpi freddi è invece rappresentato dall’anticorpo monoclonale anti-CD20 rituximab.Tra le anemie emolitiche autoimmuni ricadono anche alcune forme causate da farmaci, nei casi in cui questi interagiscono con i globuli rossi con modalità che possono innescare una risposta autoimmune.

 

EMOGLOBINURIA PAROSSISTICA NOTTURNA (EPN)

È una malattia molto rara in cui una mutazione acquisita (cioè non presente dalla nascita) rende le cellule, in particolare i globuli rossi, particolarmente sensibili al sistema del complemento, un complesso di proteine essenziale per l’attivazione della risposta immunitaria dell’organismo.I globuli rossi con questa mutazione non sono in grado di bloccare il complemento che, iperattivato, può portare alla loro rottura con conseguente emolisi intravascolare, cioè che avviene in maggioranza direttamente dei vasi sanguigni e solo in parte nella milza. La distruzione del globulo rosso all’interno del vaso sanguigno fa sì che l’emoglobina si liberi in circolo. Quando l’emoglobina libera supera una certa quantità viene poi espulsa attraverso le urine (emoglobinuria). L’emolisi intravascolare nel contento di iperattivazione del complemento porta a un rischio aumentato di trombosi, uno dei rischi principali di questa patologia, che può anche associarsi ad altri disturbi come i dolori addominali, la stanchezza, l’insufficienza renale.La diagnosi richiede la valutazione attraverso metodiche di citoflussimetria di proteine specifiche sulle cellule del sangue, che sono carenti nei pazienti con EPN.Il trattamento è stato rivoluzionato dall’avvento di inibitori specifici del complemento, come l’anticorpo monoclonale anti-C5 eculizumab, in grado di bloccare così la rottura dei globuli rossi mediata da questo sistema. Nuovi farmaci sono ormai in arrivo, come il ravulizumab, derivato di eculizumab che richiede una somministrazione molto meno frequente, e nuovi inibitori che agiscono su proteine diverse del complemento. Alcuni di tali nuovi farmaci – per ora non approvati – saranno probabilmente disponibili anche per via sottocutanea o orale, con un potenziale vantaggio per i pazienti, che richiedono una terapia solitamente a lungo termine.In alcune forme di EPN l’emolisi è più limitata, ma la malattia si associa a un’insufficienza midollare tipo l’anemia aplastica o le mielodisplasie. In queste forme, accanto all’anemia vi sono di solito anche valori bassi di piastrine e globuli bianchi.

 

  • ANEMIA SIDEROPENICA
    L’anemia sideropenicaè la più frequente e diffusa forma di anemia, la cui caratteristica principale è la carenza di ferro, elemento essenziale per la vita. Nel nostro corpo, di ferro ne abbiamo circa 4-5 grammi in condizioni normali, di cui ben 3 grammi presenti nell’emoglobina a completare una particolare struttura chiamata gruppo eme. La molecola di ferro in tale gruppo è fondamentale per la capacità di legare l’ossigeno, rendendone così possibile il trasporto a tutte le cellule del corpo.
    Nella norma perdiamo una determinata quantità di ferro ogni giorno: circa 1,4 mg nelle donne, 0,8 mg negli uomini. Questa perdita viene reintegrata attraverso gli alimenti, ma nel caso si vada incontro a una momentanea carenza, essa viene compensata dalla mobilitazione del ferro in riserva, immagazzinato principalmente sotto forma di ferritina.INCIDENZA
    L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che ci siano circa 2 miliardi di persone affette da anemia sideropenica. Una maggiore presenza è registrata nei paesi sottosviluppati, diretta conseguenza dello stato di malnutrizione della popolazione.DIAGNOSI
    La comparsa dell’anemia è un processo molto lento. In una prima fase (sideropenia) vengono utilizzate le riserve di ferro e quando esse terminano si instaura l’anemia vera e propria.I sintomi tipici sono pallorestanchezzapalpitazionimancanza di fiatoscarsa resistenza allo sforzo, ma possono essere presenti anche lesioni della cute e fragilità delle unghie.
    Per la diagnosi dell’anemia sideropenica si prendono in considerazione i valori di emoglobina e la grandezza dei globuli rossi, misurata con il volume corpuscolare medio (MCV): in questa forma i globuli rossi sono infatti piccoli. Il numero totale dei globuli rossi è poi ridotto. SI valuta quindi l’assetto marziale, attraverso i parametri del ferro, della transferrina e della ferritina. Valutati assieme, questi consento di porre diagnosi di carenza di ferro. Talvolta i valori delle piastrine possono essere elevati come reazione alla carenza di ferro, anche se il meccanismo non è del tutto chiarito.
    Come in tutte le anemie è fondamentale, dopo la diagnosi, arrivare a identificare le cause che sono all’origine della carenza. Tra le donne è frequente che il motivo possa essere un aumentato flusso mestruale o una gravidanza, la cui richiesta di maggiore fabbisogno potrebbe non essere adeguatamente compensata dalla dieta. Per entrambi i sessi è frequente che l’anemia sia causata da perdite di sangue del tratto gastrointestinale. In alcuni casi la causa può essere un alterato assorbimento o uno scarso apporto, specie nelle diete vegane.TERAPIA
    Nella maggioranza dei casi la terapia consiste nella somministrazione per via orale di sali ferrosi o ferrici, a seconda della tollerabilità e della capacità di assorbimento dell’individuo. Nei casi con scarso assorbimento, è a volte necessaria la somministrazione per via endovenosa, come in una rara condizione detta irida (iron refractory iron deficiency anemia, ovvero anemia ferro-carente refrattaria al ferro) dovuta a una mutazione genetica di una proteina coinvolta nell’assorbimento e trasporto del ferro.PARTICOLARITÀ
    Siamo in grado di assorbire circa il 10% del contenuto di ferro presente negli alimenti. Ferro che non circola però libero nel corpo, ma si lega a una proteina, la transferrina, che provvederà poi alla sua distribuzione ai tessuti.

 

  • SINDROMI TALASSEMICHE
    Questo gruppo di malattie sono delle anemie microcitiche(cioè caratterizzate da globuli rossi di piccole dimensioni) dovute a difetti in geni coinvolti nella produzione delle catene di emoglobina. L’accumulo di tali catene difettose all’interno del globulo rosso provoca il danneggiamento della membrana, seguita dalla precoce e diffusa distruzione dei globuli rossi e la conseguente comparsa di una carenza ed uno stato di anemia.
    Nel bacino del Mediterraneo è molto diffusa la β-talassemia. Sono state identificate oltre 200 mutazioni nel gene β-globinico che portano ad una ridotta o totale assenza di produzione della catena globinica. Più rare solo le forme di α-talassemia, anch’esse di gravità variabile.
    La malattia è caratterizzata dalla trasmissione del difetto genetico di tipo autosomico recessivo. Ciò significa che le persone possono essere portatori sani del gene mutato (eterozigoti). Il problema nasce quando si formano coppie di portatori sani. In questo caso il figlio della coppia avrà il 25% di probabilità di ereditare entrambi i geni difettosi e quindi sviluppare la più grave forma di malattia, la talassemia major.DIAGNOSI
    A seconda del profilo genetico la β-talassemia si può distinguere in tre forme:
  • Talassemia major, detta anche anemia mediterranea o morbo di Cooley, è la forma più grave della malattia. I sintomi appaiono presto, tra i 6 mesi e i due anni di vita del bambino.
  • Talassemia intermedia, che comprende un vasto spettro di manifestazioni cliniche che vanno da forme più lievi indipendenti dalle trasfusioni ad altre molto simili alla major. La comparsa dei sintomi si ha tra i 2 e i 6 anni di vita e i bambini possono avere difficoltà di crescita e di sviluppo.
  • Talassemia minor, anche chiamata eterozigosi (portatore sano).

PROGNOSI e ANDAMENTO CLINICO
Dal punto di vista clinico le forme rilevanti sono quelle intermedie e la major. Nell’ambito delle stesse forme intermedie però si può operare un’ulteriore distinzione in forme lievi o severe. Le forme lievi possono anche essere asintomatiche fino all’età adulta. In generale le forme intermedie sono caratterizzate da un’anemia cronica con valori di emoglobina compresi tra 7-10 g/dl. Tali valori tendono a mantenersi stabili senza la necessità di trasfusioni continue.

TERAPIA
Le forme eterozigoti (portatori sani) non necessitano di terapie specifiche.
Nel caso delle forme più gravi sono necessarie regolari trasfusioni per sostenere i valori di emoglobina tra 9-10 g/dl. Le numerose trasfusioni però provocano un apporto di ferro in quantità molto maggiore alla capacità di utilizzo da parte dell’organismo. Per evitare quindi i danni causati da questo accumulo (specie su cuore, fegato e ghiandole endocrine) è necessario anche sostenere una terapia ferrochelante che si protrarrà per tutta la vita.
Recentemente è stato approvato per la β-talassemia trasfusione dipendente il luspatercept, un farmaco con un innovativo meccanismo d’azione in grado di migliorare la maturazione dei precursori dei globuli rossi e ridurre quindi la necessità di trasfusioni.
Il trapianto di midollo è un’opzione terapeutica potenzialmente curativa che può essere valutata in casi severi in presenza di un donatore compatibile.
La terapia genica, in grado di sostituire il gene non funzionante con uno sano, sta emergendo come un approccio molto promettente.

PARTICOLARITÀ
È possibile effettuare la diagnosi prenatale di talassemia mediante l’analisi del DNA (acido desossiribonucleico) dei villi coriali all’11ma settimana di gestazione o tramite amniocentesi tra la 15ma e la 18ma settimana.

L’anemia aplastica (AA), o aplasia midollare, è una patologia caratterizzata dall’insufficiente numero di cellule staminali emopoietiche, che si riflette in una diffusa carenza di tutte le cellule circolanti a livello sistemico. La malattia si distingue in due forme: acquisita e congenita. Le forme congenite (20%) rappresentano solitamente la fase terminale di un’evoluzione di malattia genetica come l’anemia di Fanconi o la discheratosi congenita.La malattia in forma acquisita è la più frequente e si stima essere pari all’ 80% delle aplasie midollari. Nel contesto della forma acquisita si operano altre due distinzioni a seconda dell’origine della malattia: idiopatica quando le cause sono ignote (80% dei casi), secondaria quando invece esse sono note (20%).Nella AA idiopatica, il meccanismo di base sembra essere autoimmune. I linfociti del paziente attaccano le cellule staminali ematopoietiche e le distruggono, portando al progressivo impoverimento delle cellule del midollo, fino al quasi completo esaurimento. L’AA secondaria tipicamente si origina a seguito di reazioni a farmaci o a seguito di esposizione ad agenti chimiciradiazioni ionizzanti ma anche, occasionalmente, a virus. Alcune forme sono state associate ad epatiti o raramente a gravidanza. L’entità dei sintomi è direttamente correlata alla gravità citopenia e questi possono manifestarsi in modo abbastanza acuto o più silente e subdolo. I sintomi possono essere quelli legati all’anemia (stanchezza, affaticabilità, pallore, mancanza di fiato) e alla carenza di globuli bianchi, ossia infezioni di varia localizzazione e gravità. Non da ultimo, direttamente relazionato al numero di piastrine circolanti, possono presentarsi sanguinamenti.

 

INCIDENZA

L’incidenza dell’AA è stimata in circa 2 casi per milione di persone e non emergono differenze di prevalenza tra maschi e femmine.

DIAGNOSI
La diagnosi di AA viene sospettata in caso di pancitopenia (riduzione di tutti gli elementi cellulari del sangue: globuli rossi e bianchi e piastrine) e viene confermata attraverso la valutazione della biopsia osteomidollare, che mostrerà un midollo estremamente povero, con cellularità molto ridotta. La valutazione alla diagnosi consente anche di classificare il paziente in una dei tre gradi di malattia previsti: moderata, severa o molto severa, che dipendono dall’entità delle citopenie.

 

PROGNOSI E ANDAMENTO CLINICO

La severità di malattia è un indicatore diretto della prognosi dell’AA, e valori di neutrofili ‎500/μl (o ancora di più se <200/μl), piastrine ‎20000/μl e un’elevata riduzione della cellularità midollare sono tutti indicatori di severità.La sopravvivenza a lungo termine dalla diagnosi è buona, in particolare nei bambini e giovani-adulti. Negli adulti e negli anziani i risultati sono globalmente inferiori, ma stanno migliorando in questi ultimi anni.La presenza di anomalie cromosomiche, come la monosomia del 7 (perdita di una copia del cromosoma 7), rappresenta un fattore prognostico negativo perché predice la mancata risposta agli immunosoppressori e un rischio di evoluzione della malattia. In circa il 10% dei pazienti la malattia può evolvere in mielodisplasia leucemia acuta.

 

TERAPIA

Il trattamento di elezione dell’AA dipende dalla severità della patologia, dall’età e stato di salute del paziente, oltre che dalla disponibilità di un donatore compatibile. Per pazienti con patologia severa, giovani e con donatore familiare compatibile, il trapianto di cellule staminali rappresenta il trattamento di elezione, con un’alta probabilità di risoluzione della malattia. Nel caso in cui il donatore non fosse disponibile, l’età sia più elevata o le condizioni del paziente non lo consentano, il trattamento di riferimento è quello della immunosoppressione. Il trattamento immunosoppressivo è intenso, e consiste nell’associazioni di siero antilinfocitario (ATG) e ciclosporina.Si sta poi affermando il ruolo dell’agonista della trombopoietina eltrombopag, sia nei pazienti che non rispondono o non sono candidabili alla terapia immunosoppressiva sia, più recentemente, in prima linea in associazione a ATG e ciclosporina.

 

PARTICOLARITÀ

In alcuni casi, l’AA si associa a un clone di emoglobinuria parossistica notturna, spesso di piccola entità. Raramente ciò porta a una vera e propria emolisi, ma si collega a miglior risposta a terapia immunosoppressiva.

Rientrano in questa definizione tutte le patologie caratterizzate da un difetto dei fattori della coagulazione. Tale difetto può essere di tipo sia quantitativo sia qualitativo e avere un’origine congenita o acquisita.
Nel caso delle coagulopatie acquisite i problemi possono avere origine dal fegato (epatopatia), da una carenza di vitamina K o dalla comparsa di anticorpi diretti contro i fattori della coagulazione, come nell’emofilia acquisita.
Fra le coagulopatie congenite, dovuta a deficit genetici presenti dalla nascitasi effettua invece una classificazione a seconda dei fattori della coagulazione coinvolti.

EMOFILIA A – DIFETTI DEL FATTORE VIII
Il fattore VIII (FVIII) è una glicoproteina plasmatica sintetizzata nel fegato. Il gene che la codifica è localizzato sul braccio lungo del cromosoma X. L’ereditarietà di questa malattia è di tipo diaginico (o X-linkedrecessivo. Ciò vuol dire che le donne, che hanno due cromosomi X, possono essere portatrici sane della malattia e hanno il 50% di possibilità di trasmettere il gene ai figli. Quando il gene malato è trasmesso al figlio maschio, avendo lui solo un cromosoma X, sarà malato.
Basandosi sui livelli di FVIII in circolazione si classifica l’emofilia A in: grave <1%, moderata 1-5%, lieve >5%.
Un sintomo caratteristico della malattia è l’emartro, un’emorragia all’interno della cavità articolare che, se non adeguatamente riconosciuta e curata, può anche arrivare a danneggiare in modo irreversibile l’articolazione. Altri segni sono gli ematomi che compaiono anche per traumi di minimo impatto.
La diagnosi viene posta quando nel bambino compaiono emorragie articolari (emartro) o muscolari (ematoma) spontanee o a seguito di piccoli traumi e a seguito di approfondimenti clinici.
La terapia prevede la somministrazione di concentrati di FVIII sia nel momento del bisogno che in profilassi come, ad esempio, in preparazione di interventi che potrebbero avere un rischio implicito (estrazioni dentarie, interventi chirurgici). Nei pazienti in cui il livello del FVIII è superiore al 10% si può somministra un farmaco in grado di mobilitarne le riserve e renderle disponibili in circolo. Un nuovo approccio di profilassi è l’utilizzo dell’anticorpo monolocale bispecifico emicizumab, in grado di legare fattore IX e a fattore X, sostituendo così il ruolo del FVIII carente.
Una complicanza grave che può presentarsi a seguito della terapia sostitutiva è la comparsa di un anticorpo inibitore anti-FVIII. Ciò può accadere in una discreta popolazione di pazienti (20-30%) e determina una refrattarietà alla terapia stessa. In questi pazienti un protocollo prolungato che prevede alte dosi e frequenti somministrazioni di FVIII possono indurre l’immunotolleranza, portando alla scomparsa dell’inibitore.
Nuovi farmaci sono stati sviluppati per trattare il sanguinamento in questi pazienti, come il FVIII porcino.

EMOFILIA B – DIFETTI DEL FATTORE IX
L’emofilia di tipo B è causata da una carenza del fattore IX (FIX). Anche questo gene è localizzato sul cromosoma X e la sua trasmissione è di tipo diagenico recessivo, come il tipo A. Anche la distinzione della gravità di malattia, attraverso la valutazione dei livelli di FIX, e i sintomi sono sovrapponibili a quelli del tipo A.

La terapia anche in questo caso viene svolta con concentrati purificati di FIX anche se, a differenza dell’emofilia A, lo sviluppo di anticorpi contro il fattore è un evento raro.

COAUGULOPATIE RARE – ALTRI FATTORI DELLA COAGULAZIONE
Si tratta di patologie collegate alla carenza di diversi fattori di coagulazione. In genere la trasmissione genetica è di tipo autosomico recessivo.
sintomi clinici sono meno gravi di quelli riscontrabili con le emofilie di tipo A e B e spesso si tratta di un difetto qualitativo, piuttosto che quantitativo, del fattore di coagulazione.

NUOVE DIREZIONI
La terapia genica, in grado di sostituire il gene non funzionante con uno sano, sta emergendo come un approccio molto promettente.

L’emocromatosi è una malattia caratterizzata da un eccessivo accumulo di ferro il quale, con il tempo, provoca il danneggiamento dei tessuti. L’emocromatosi ereditaria, la forma di cui parliamo dettagliatamente in questa scheda, ha una causa prettamente genetica e, in relazione al gene mutato, si possono distinguere 4 tipi di emocromatosi:

  • Emocromatosi di tipo 1: definita emocromatosi classica, anche definita HFE-correlata (HFE è un gene), si trasmette con modalità autosomico recessiva (cioè per manifestarsi è necessario aver ereditato le copie due copie del gene malato, una dalla madre e una dal padre). Una particolarità di questa forma di malattia è che molti soggetti, pur essendo geneticamente omozigoti per la mutazione, non manifestano i relativi sintomi clinici. Il motivo di tale discordanza non è tuttora noto.
  • Emocromatosi di tipo 2: è legata a mutazioni nel gene HJV e si manifesta spesso negli adolescenti.
  • Emocromatosi di tipo 3: il gene interessato è il TFR2, che codifica per il recettore della transferrina di tipo 2.
  • Emocromatosi di tipo 4: interessa il gene SLC0A1 ed è diffusa soprattutto nella popolazione sudeuropea.

A prescindere dall’origine genetica, tutti i tipi di emocromatosi condividono le principali caratteristiche cliniche: viene alterata la capacità del corpo di bloccare l’assorbimento del ferro in eccesso. Esso dunque si accumula nei tessuti che, in modo lento ma costante, si danneggiano. I sintomi più frequenti sono di tipo sistemico, come debolezza o letargia, ma sono abbastanza frequenti anche l’alterazione della funzionalità epatica o della pigmentazione cutanea.

DIAGNOSI
La comparsa dei sintomi può essere ritardata, anche di anni, rispetto all’inizio dell’accumulo di ferro ed è per questo che a molti pazienti viene diagnosticata la malattia solo in età adulta.
La diagnosi non è semplice, e la storia clinica del paziente e dei suoi familiari possono essere fattori che pongono il sospetto. Dalla valutazione dell’assetto marziale (cioè di ferro, ferritina e transferrina) può essere dimostrato l’accumulo di ferro nell’organismo, che è caratteristico della malattia. La conferma definitiva arriva con l’analisi genetica e il riscontro di una delle mutazioni precedentemente elencate.
Esami specifici come la risonanza cardiaca e la squid epatica (metodica non invasiva che permette di valutare con estrema precisione l’accumulo di ferro nel fegato; squid sta per superconductive quantum interference device), possono evidenziare lo stato di accumulo del ferro negli organi più a rischio di problemi.

PROGNOSI
Le problematiche principali sono a carico di fegato e cuore e le complicanze che interessano tali organi rappresentano la prime due cause di morte dell’emocromatosi, se non trattata. Possono anche essere presenti diverse alterazioni endocrinologiche, che coinvolgono cioè le ghiandole che producono ormoni, e portare a malattie come il diabete.

TERAPIA
I pazienti che non presentano sintomi vengono trattati con salassi a cadenza periodica, una modalità semplice ed efficace per ridurre la quantità di ferro in eccesso.

PARTICOLARITÀ
Nelle donne le manifestazioni cliniche spesso emergono dopo la menopausa, poiché la perdita di ferro dovuta al ciclo mestruale tende a compensarne l’accumulo.

La piastrinopenia autoimmune (ITP) è una malattia caratterizzata dalla drastica riduzione del numero di piastrine circolanti a causa della loro distruzione e della soppressione della produzione.
La malattia viene distinta in due forme: forme primarie (circa 80% del totale) e forme secondarie (20%). In entrambe la natura della malattia sembra essere di tipo autoimmune e si possono autoanticorpi antipiastrine. Purtroppo però non sono note le cause che scatenano tale processo e danno origine alla malattia.
Nelle forme secondarie la malattia insorge a seguito di altre patologie (ad esempio malattie autoimmuni come il lupus, malattie ematologiche come la leucemia linfatica cronica) o a causa dell’assunzione di farmaci.

INCIDENZA
La malattia ha un’incidenza stimata con un valore compreso tra 1,6 e 3,9 casi per 100.000 persone per anno.

DIAGNOSI
La diagnosi di ITP viene effettuata per esclusione. Dal punto di vista clinico la malattia è caratterizzata dall’assenza di ogni altro sintomo che non sia direttamente relazionabile alla piastrinopenia. L’analisi morfologica al microscopio ottico di un campione di sangue è fondamentale per la diagnosi.

Le manifestazioni cliniche sono tipicamente emorragiche e si manifestano con la comparsa di petecchie, prevalentemente localizzate negli arti inferiori. Quando le piastrine raggiungono un livello particolarmente basso, con valori nell’ordine di 5000-10.000/μl, possono manifestarsi emorragie di vario livello con perdite di sangue dal naso, gengive o a carico del tratto gastrointestinale o genitourinario.

La malattia si distingue in tre classificazioni:

  • ITP di nuova diagnosi: la malattia potrebbe essere temporanea e risolversi spontaneamente in un tempo più o meno breve ma comunque entro il primo anno.
  • ITP persistente: quando la malattia non regredisce nell’arco di 3-12 mesi dalla diagnosi primaria. In quest’ultima definizione rientrano anche i casi che non mantengono una risposta alla terapia con la ricomparsa della malattia.
  • ITP cronica: quando la malattia è presente per più di 12 mesi è difficile, ma non impossibile, che questa regredisca spontaneamente. In tal caso, nella concomitante presenza di un rischio emorragico, vengono valutate terapie più importanti

PROGNOSi
La mortalità in generale è molto bassa, ma la malattia può influire sulla qualità di vita dei pazienti.

TERAPIA
Il principale obiettivo della terapia è quello di ridurre il rischio emorragico e quindi di mantenere il numero di piastrine a livelli non pericolosi per la salute.
Il trattamento di prima linea consiste nel trattamento steroideo, che viene associato a immunoglobuline policlonali nei casi più severi per consentire una rapida risalita dei valori di piastrine.
Per i casi che non rispondono più agli steroidi o che ricadono viene valutata la splenectomia, cioè la rimozione della milza, tuttora l’opzione terapeutica con il maggiore tasso di risposta e che garantisce la guarigione a circa due terzi dei pazienti.
Nei casi che ricadono dopo splenectomia, non candidabili a questa, o talvolta anche prima di arrivare a tale scelta terapeutica, vengono utilizzati gli agonisti del recettore della trombopoietina: l’eltrombopag (per via orale) o il romiplostim (per via sottocutanea). Tali farmaci, in grado di migliorare la produzione piastrinica, si sono dimostrati molto efficaci. Un’altra opzione terapeutica è rappresentata dall’anticorpo monoclonale anti-CD20 rituximab. I casi multirefrattari possono ricevere altri immunosoppressori, come ciclosporina, ciclofosfamide o micofenolato.
Nelle ITP secondarie invece l’obiettivo primario è quello di trattare e risolvere la malattia di base o interrompere l’assunzione degli eventuali farmaci responsabili.

PARTICOLARITÀ
L’ITP può apparire anche in gravidanza, anche se in modo raro, e non deve esser confusa con una piastrinopenia gestazionale che è un evento benigno.

RICERCHE FUTURE
Sono in studio nuovi farmaci con meccanismi d’azione diversi per i pazienti che falliscono le terapie standard. Fra essi sarà presto disponibile il fostamatinib, un inibitore per via orale di SYK. Il farmaco è infatti in grado di bloccare la distruzione delle piastrine colpite dagli autoanticorpi che è mediata dai macrofagi, agendo su un loro segnale intracellulare mediato da SYK.